Non c’è una sola ragazzina che non abbia pensato, osservando quanto veniva legata stretta la Barbie alla confezione, che sembrava che avessero paura che scappasse.
Bene: alla fine è successo.
Barbie è scappata.
Il film di Greta Gerwig (regista e sceneggiatrice, 39 anni) poteva essere tante cose brutte. Un meme. L’ennesima sussunzione capitalistica di messaggi femministi. Un altro inutile pinkwashing di Hollywood.
Flirta con tutto questo senza essere niente del genere. Su Barbie ha ragione Margot Robbie, che l’ha co-prodotto e che vi recita magistralmente: è un film femminista. Non sorprende che Mattel le abbia dato contro, quasi offesa da una parola tanto spaventosa.
Oltre 1 miliardo di bambole vendute in 150 paesi, 3 al secondo, recitano i comunicati stampa dell’azienda nata dall’idea di una donna (Ruth Handler), ma guidata da uomini.
5 femminicidi all’ora, recitano i comunicati di Non Una Di Meno, movimento femminista transnazionale che negli ultimi anni ha scelto proprio il fucsia tra i suoi colori-simbolo.
È questo, il mondo reale, a essere preso di mira dal film. Un film che punta al cuore del capitalismo: Barbie è una trappola, è una vendetta.
Vedendo le tantissime ragazzine, ragazze, donne che si affollano fin dal primo giorno davanti ai cinema, la maggior parte vestite in qualche nuance di rosa, l’unica frase che viene in mente è di Margareth Atwood che, profeticamente, nel suo Racconto dell’ancella scriveva: «They should never have given us uniforms if they didn’t want us to be an army». Non ci dovevano dare un’uniforme, se non volevano che fossimo un esercito.
Partiamo da qui. L’incipit del film è indimenticabile, e fa venire i brividi. Bambine che fino a ieri erano costrette a giocare alla mamma in miniatura, con i loro bambolotti, con le loro cucine formato baby casalinga, con i loro biberon - deprivate dell’infanzia, abusate perfino nei giochi - che, all’apparire della prima Barbie, nata proprio perché l’inventrice aveva scoperto che sua figlia Barbara si divertiva di più a giocare con figure adulte che a fingersi mamma di altri bambini, prendono i suddetti e li spaccano con violenza, come cavernicole, sulle pietre. Rabbia, bambine, la messa in scena di un finto infanticidio contro una finta maternità precoce e imposta, liberazione. Una scena meravigliosa. Uno dei migliori incipit della storia del cinema.
Nel film c’è una breccia, un portale che si apre tra Barbieland e mondo reale. La breccia è un pensiero di morte (risuona con i femminicidi?), ma quello che succede in realtà è che Barbie stessa è un portale tra mondo delle idee e mondo reale. Il film usa un simbolo che si voleva emancipatorio ma che come sappiamo ha in larga parte fallito nell’esserlo; che prova a reinventarsi tingendo di altri colori la pelle di Barbie o mettendola su una carrozzella. L’ipocrisia del marchio è messa in scena, il simbolo viene rigirato come un pedalino. Il tutto con estrema ironia. Guardando Barbie si sorride tutto il tempo. A chi è sensibile parte anche qualche lacrima molto sentita.
Quando Margot Robbie va nel mondo reale per capire cosa c’è che non va, la prima cosa che le fanno è del catcalling. Barbie reagisce in modi buffi, sarebbe interessante vedere che effetto produrrebbero nella vita reale. Prima le parte un cazzotto. Poi esclama: «Volevo informarvi che io non ho la vagina!».
Vicino a lei, un Ryan Gosling che sa essere all’altezza. Per questo ruolo si è sentito dire che era troppo vecchio o troppo brutto. In realtà fortunatamente vince il female gaze, per una volta, ed è evidente che l’attore non è niente di tutto ciò. Incredibilmente ironico e autoironico, canta, balla, fonda la caricatura di un patriarcato, piange, interpreta il ruolo di un Ken assolutamente sottone (termine gergale ormai sdoganato per dire che è lui che ama Barbie, lei non corrisponde). Gosling è così convincente che, se ci sarà un effetto fastidiosamente positivo per le vendite Mattel (e ci sarà), è proprio che grazie a lui lo scialbo personaggio di Ken opera un rebranding vincente.
Barbie è anche una bella rivincita per due degli attori più oggettificati di sempre, lei più di lui. Margot Robbie è estremamente talentuosa, la sua aderenza ai canoni estetici da una parte le ha permesso di recitare in un sistema in cui è difficile fare ingresso, dall’altra c’è chi vede solo questo in lei. Come Angelina Jolie, è una grande attrice che in troppi provano a ridurre all'aspetto fisico. Un aspetto fisico che è solo un ariete, che le è servito a sfondare la barriera d’entrata in un sistema ostile. Che lei interpreti Barbie indossando volutamente la maschera che le hanno messo, stavolta per essere sé stessa, è il goal attoriale definitivo. Anche Ryan Gosling se la cava, dicevamo. Più che bene, e si vede che si dev’essere divertito parecchio a interpretare Ken. Eccetto per la ceretta, sulla quale dichiarava: «È stata un’illuminazione», e «una delle esperienze più dolorose della mia vita». Diceva inoltre che le donne sono coraggiose a sottoporsi a questa cosa quasi ogni mese finché campano. Sottintendeva: figuriamoci tutto il resto.
Quando Ken arriva nel mondo reale scopre che lì - qui - vige il patriarcato, e si ringalluzzisce. Prende appunti, legge parecchio, osserva. Ken in Barbieland svolge il ruolo che una donna qualsiasi ha nel mondo reale. Il film critica il sistema operando un abile gioco di specchi. La sua utopia è geniale perché ci parla di un mondo distopico. Il nostro.
E viene messa in scena una sovversione del sistema, sempre grazie alla questione degli specchi. Ken si prende Barbieland, le Barbie (e qualche alleato inatteso coi capelli rossi) devono organizzare una sommossa. Fermo restando che l’ironia e il non prendersi sul serio sono la cifra del film, non ci si ferma alla critica. Il fatto che tutto questo avvenga in un’esplosione di rosa e fucsia è l’inganno definitivo, la trappola al capitalismo di cui si parlava. Perché a volte le idee sfuggono al controllo di chi ci mette i soldi. Proprio come le Barbie. Per quanto le leghi strette, magari un giorno te ne scappa una. Ti fa i bisogni dentro casa proprio come il cane del film. Di plastica, per carità. Ma te la fa proprio davanti agli occhi.
Alcune previsioni sulla base di un’osservazione attenta delle prime reazioni: il film scatenerà un bel po’ di sessismo mascherato da critica intellettuale. Avverrà (sta avvenendo) da parte di chi con una Barbie non ha mai giocato. Maschi bianchi etero cis diranno che è meglio Oppenheimer senza averlo ancora visto (al netto dell’ondata di meme legata al fatto che i due film sono usciti lo stesso giorno negli Usa, qua il secondo uscirà ad agosto, e non si capisce perché apprezzare l’uno dovrebbe escludere l’apprezzamento dell’altro). Numerose donne nella visione troveranno un vero e proprio esorcismo al loro sessismo interiorizzato e difenderanno il film dalla critiche, almeno quelle pronunciate dalla trasposizione “adulta” di quei bambini che tenevano a dirci che Barbie esisteva per guardarli giocare ai soldatini, alle macchinine, agli Action Man che sentivano che sarebbero diventati da grandi. Spoiler: Barbie ha sempre preferito Ken. E le altre donne, prima di tutto. I meme che ci propongono un non necessario binarismo di genere usando un film contro l’altro devono restare meme, altrimenti mettono in luce solo la claustrofobia dell’apertura di vedute di chi pensa davvero di dover scegliere tra Nolan e Gerwig.
Se un certo mercato avrà certamente dei vantaggi a breve termine (non tanto con operazioni come la capsule collection di Zara dedicata a Barbie o la collaborazione tra Superga e Mattel, quanto con il rebranding di Ken dovuto a un Ryan Gosling meraviglioso), per una volta inconsapevolmente il capitalismo sta vendendo un’uniforme proprio alle persone che vorrebbero decretarne la fine.
Barbie recensione Cult+
RSI Cultura 27.07.2023, 08:55