Hollywood è piena di attori che venderebbero l’anima al diavolo pur di recitare in un film diretto da qualche mediocre regista. Poi ci sono talenti che, di fronte a un’offerta di Francis Ford Coppola, si sentono in dovere di rifiutare. Eppure, non compromettere l’integrità della compagnia teatrale per cui si lavora può essere, per qualcuno, più importante di una prima sul grande schermo. A giudicare da questo semplice episodio giovanile, si potrebbe tracciare il ritratto di un uomo onesto e affidabile, concentrato sul proprio sogno a tal punto da avere la percezione di non aver “fatto altro che lavorare sodo” in tutta la vita. Grazie a questa attitudine al duro lavoro, Val Kilmer (morto il 1 aprile all’età di 65 anni dopo una lunga lotta contro il cancro) entrò alla facoltà di arte drammatica della Juilliard School quando ancora adolescente, diventando lo studente più giovane mai ammesso al programma di recitazione. Da lì, non avrebbe aspettato molto per il suo primo ruolo nel cinema.
Ritrovarsi protagonista di un film demenziale potrebbe sembrare la condanna ideale, una dura legge del contrappasso per chi ha calcato teatri rifiutando I ragazzi della 56ª strada (1983), ma Top Secret! (1984) si sarebbe rivelato un cult al pari di altre opere del trittico Zucker-Abrahams-Zucker, nonché una vetrina fondamentale per l’attore. Una vetrina che Val Kilmer rischiò irresponsabilmente di frantumare in due semplici mosse. Non contento di aver snobbato Coppola, l’attore pensò infatti di rifiutare le offerte di David Lynch e Dino De Laurentiis per Dune (1984) e Velluto Blu (1986). Sebbene c’è chi sostiene che per il primo film fu posto un veto dal produttore (poco convinto della forma delle labbra di Kilmer), è certo che sia stato l’attore a disinteressarsi al secondo, ritenuto erroneamente un soft-porn. Allontanandosi, non privo di pentimenti, dal cinema d’autore, Kilmer finì così tra le braccia di Tony Scott, che con Top Gun (1986) incise il suo nome nella storia del cinema.
Non servì molto affinché qualcun altro ponesse gli occhi su di lui. Oliver Stone lo immaginò perfetto nelle vesti di Jim Morrison. Così, dopo mesi trascorsi a vestire come il Re Lucertola e a cantare nei locali con una voce quasi indistinguibile, Val Kilmer regalò al pubblico una delle sue più acclamate interpretazioni in The Doors (1991), per poi tornare a recitare con Scott in Una vita al massimo (1993), scritta da Quentin Tarantino. Furono del resto gli anni Novanta a consacrare definitivamente Kilmer che, in questa decade, interpretò i suoi ruoli più iconici, da Tombstone (1993) di George Pan Cosmatos a Il Santo (1997) di Phillip Noyce, passando per Batman Forever (1993) di Joel Schumacher, Spiriti nelle tenebre (1996) di Stephen Hopkins e Heat - La sfida (1995) di Michael Mann. E proprio Man è stato tra i primi a pubblicare un ricordo dell’attore: “Quando lavoravo con Val in Heat, mi meravigliavo sempre della sua versatilità, della straordinaria variabilità all’interno della potente carica con cui possedeva ed esprimeva i suoi personaggi. Dopo tanti anni in cui Val ha combattuto la malattia senza mai perdere il suo spirito, questa è una notizia tremendamente triste.”
Lo è. Il nuovo millennio portò Kilmer a decine di nuovi film, raramente all’altezza dei precedenti, ma soprattutto alla malattia che lo avrebbe ucciso. Una diagnosi di cancro alla gola, una voce cancellata dalle terapie, una carriera finita. Una vita raccontata nel 2021 da Val, documentario diretto da Leo Scott e Ting Poo e presentato al festival di Cannes dello stesso anno e in cui l’attore si mette a nudo mostrando la propria fragilità. Centinaia di ore girate dallo stesso attore nel corso della sua carriera, preziosi Super 8 e riprese in VHS che testimoniano l’evoluzione da bambino a divo, fino alla malattia scoperta nel 2017. Molto prima che il self tape diventasse una pratica diffusa in seguito all’epidemia di COVID, Kilmer registrava i propri provini per registi quali Stanley Kubrick e Martin Scorsese: provini che non gli valsero un posto per Full Metal Jacket (1987) e Quei bravi ragazzi (1990), ma che oggi sono in grado di testimoniare la vulnerabilità di un attore non ancora celebre, nonché il tortuoso e frustrante percorso di un sogno comune a tanti, e a tanti precluso. Si tratta di immagini autentiche quanto quelle che lo mostrano reduce dalla tracheotomia e che scandiscono in pochi frame l’enorme distanza tra l’ipocrita, superficiale Hollywood, e la cruda, spesso inclemente, verità della vita. Pochi attori hanno avuto la lungimiranza di documentare se stessi, ancora meno di farlo con semplicità e limpidezza, fino a spogliarsi della propria aura da star per parlare di dolore e malattia. La voce del figlio Jack restituisce così volume a quella del padre Val, attraverso un documentario che vede Kilmer nel suo ultimo ruolo da protagonista. Val è del resto un documentario sulla recitazione, un’opera dedicata a quella linea sfumata che separa l’attore dal suo ruolo, la vita dalla performance o, con le parole di Kilmer: “il punto in cui finisci tu e inizia il personaggio.”
Val Kilmer ha vissuto proprio per questi suoi personaggi. Un ventaglio variegato di creature, talvolta sciocche altre volte incredibilmente profonde, ma sempre complesse: l’ambivalente Doc Holliday di Tombstone, il tormentato Chris di Heat, l’intenso Jim Morrison di The Doors, l’indimenticabile Icemen di Top Gun, col quale avrebbe dato definitivamente addio alle scene grazie al recente sequel Top Gun: Maverick (1922) di Joseph Kosinski. Un cerchio che scelse di chiudere col personaggio che, forse più di ogni altro, aveva contribuito ad aprirlo.
