Da qualche tempo c'è anche una parola per indicarla: Hallyu, la new wave coreana. Comprende, come giustamente faceva notare il Guardian che ha dedicato una doppia pagina al fenomeno a metà settembre, il “pollo fritto con salsa gochujang in un gastropub di Londra. La band delle Blackpink in prima fila alle sfilate della fashion week parigina. Code di un'ora per comprare merchandising dei BTS a Las Vegas. Ariana Grande vestita con un completo scintillante color smeraldo del marchio anglo-coreano Miss Sohee.” Qui aggiungiamo alla lista, per quanto sia banale farlo, Parasite e Squid Game. Tutti sintomi del nuovo potere coreano sulla musica, la cucina, il cinema, la televisione, la moda. Soft power, certo, che però è riuscito a imporsi sul mondo nel corso dell'ultimo decennio.
Hallyu, secondo la rivista online Atlante dell'Istituto Treccani, è un fenomeno socio-culturale che ha permesso alla Corea del Sud di diventare uno degli epicentri della cultura pop a livello globale. Un movimento che è cominciato alla fine degli anni Novanta, quando la giovane democrazia coreana, finalmente matura dopo decenni di regimi più o meno autoritari, superò (non senza danni) una grave crisi finanziaria e iniziò il nuovo millennio con una grande rinascita economica e culturale. Una corsa rapidissima, se consideriamo che all'inizio del millennio le esportazioni coreane erano limitate a telefilm di genere sentimentale (K-Dramas) e pop plasticoso (K-pop), prodotti che possiamo permetterci di definire non indimenticabili dal punto di vista artistico, e che non raggiungevano certo i confini occidentali.
Avanti veloce fino al 2022, la situazione appare radicalmente cambiata. A due anni di distanza dalla notte in cui Parasite ha conquistato quattro Oscar, compreso quello per il Miglior Film, lo scorso 12 settembre la serie Squid Game si è aggiudicato due premi, tra cui quello per il miglior attore protagonista (Lee Jung-jae) e quello per il miglior regista (Hwang Dong-hyuk) agli Emmy Awards, i più importanti dedicati alle produzioni televisive negli Stati Uniti. È la prima volta che una serie drammatica non in inglese e prodotta completamente in Paesi non occidentali vince premi tanto importanti nei 74 anni di storia degli Emmy.
La televisione è stata senza dubbio la testa di ponte per il successo di quello che viene oggi definito semplicemente K-content (lasciamo perdere ogni pensiero negativo sull'onnipresente e mortifera parola “contenuto”). I più importanti servizi di streaming, soprattutto Netflix, hanno aperto la strada a contenuti (ops) prodotti ai quattro angoli del mondo, per renderli accessibili al pubblico internazionale. Ma quelli di produzione coreana hanno evidentemente qualcosa di più, che si tratti di commedie romantiche, thriller, azione, fantasy, fiction storiche o drammi giudiziari: sono ormai decine le serie coreane che riscuotno successo – inferiore a quello di Squid Game, per carità – in tutto il mondo. L'onda Hallyu non sembra destinata a fermarsi, e non stupisce che uno dei siti americani di spettacolo più seguito, Deadline, abbia lanciato un podcast mensile intitolato Hallyuwood.
La versione coreana della legge-Netflix e la rivoluzione dei Duemila
Ma in che modo la Corea del Sud è riuscita a trasformare la sua cultura, specialmente quella visiva, in un bene da esportazione? C'entra ovviamente il caso, che ha portato molti talenti a venire alla luce nel decennio giusto, il già citato avvento dello streaming, ma anche la riforma di una legge protezionistica sul cinema. E questo è un punto che merita di essere sottolineato, perché parte da lontano e porta a molte domande ancora aperte.
Vige infatti fin dagli anni Sessanta una cosiddetta “quota di proiezione” sudcoreana, che costringe le sale cinematografiche del Paese a proiettare film nazionali per un numero minimo di giorni; al suo apice, il sistema imponeva ai cinema di proiettare produzioni sudcoreane per almeno 146 giorni all'anno. Dal 1998 in poi, il governo sudcoreano ha messo in discussione questa misura protezionistica, anche e soprattutto nell'ambito di una trattativa con gli Stati Uniti per arrivare a un trattato bilaterale sugli investimenti e a un accordo sul libero scambio, visto che Washington considerava la quota di proiezione come una chiara barriera commerciale nei confronti dei film statunitensi: il cinema stava bloccando il negoziato. Nel 2006 il governo prese il toro per le corna e decise di dimezzare la quota di proiezione, provocando di conseguenza vibranti proteste da parte dei lavoratori del settore: in quella stagione, scesero in piazza attori e registi come Lee Byung-hun, Song Kang-ho, Choi Min-sik, Bong Joon-ho e Park Chan-wook, tutti pronti a sostenere che la quota dimezzata avrebbe trasformato la Corea del Sud in una “colonia culturale” degli Stati Uniti.
Oggi possiamo osservare che, al contrario, registi e attori sudcoreani che avevano messo in guardia dall'invasione di Hollywood hanno invece a loro volta invaso altri mercati. Dunque, ecco la domanda: il sistema delle quote ha contribuito a questo successo, costruendo nei decenni precedenti un mercato e di conseguenza una generazione finalmente matura di professionisti del cinema? Oppure è stata proprio la riduzione delle quote a costringere i film sudcoreani a evolversi, per diventare competitivi sia in patria che all'estero?
Possiamo aiutarci con alcune considerazioni: dopo la firma dell'accordo di libero scambio con gli Stati Uniti il mercato cinematografico sudcoreano è cresciuto, e se è vero che la Corea del Sud è diventata uno dei maggiori mercati mondiali per le produzioni di colossi hollywoodiani come Disney, molti studios americani hanno inserito sempre più attori e ambientazioni sudcoreane nei loro film, con investimenti notevoli e un ritorno di immagine globale per il paese. Soprattutto, non si registra una riduzione apprezzabile della quota di mercato dei film nazionali nel decennio 2011-2020: i coreani continuano a vedere anche i film coreani. Forse perché sono uno dei paesi che consuma più cinema a livello globale, secondo le statistiche: nel 2019 i sudcoreani guardavano una media di circa 4,37 film pro capite, uno dei numeri più alti al mondo (questa cifra è scesa sensibilmente nel 2021, ma la tendenza è poco indicativa, a causa dell'impatto devastante dell'epidemia di Covid-19).
C'è poi da dire che anche in altre occasioni nel passato, l'adozione e il mantenimento di una politica di apertura ha sempre avuto ricadute positive per la Corea del Sud. Proprio nel già citato 1998, ad esempio, Seul abolì il divieto il divieto sui prodotti culturali giapponesi, con una mossa che molti dichiararono avventata, e destinata a distruggere l'ecosistema della produzione culturale nazionale. Al contrario, sorprendentemente fu il pubblico giapponese ad appassionarsi ai K-Drama, aprendo nuovi mercati alla televisione coreana.
Dunque, non è detto che la risposta alla domanda posta poche righe più sopra sia univoca: probabilmente il sistema produttivo coreano ha trovato talenti e risorse che gli hanno permesso di non adagiarsi sui vantaggi del protezionismo, né di farsi in seguito fagocitare dall'apertura al mondo. Come sempre nella vita, non sono tanto le decisioni in sé a fare la differenza, ma il tempismo – e lo stile – nel prenderle.