Venerdì 26 gennaio, 21:00 RSI LA2

Il mio vicino Adolf

Un film che ci costringe a guardarci dentro, in un gioco di specchi per nulla scontato

  • 26 gennaio, 08:12
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Di: Davide Staffiero 

Il film rimane a disposizione sul Play RSI per 14 giorni

Affrontare nazismo e Olocausto con gli strumenti della commedia non solo è possibile, ma se fatto nella maniera giusta può regalare vere e proprie perle. Da “Il grande dittatore” a “La vita è bella”, passando per “Train de vie” o – in tempi più recenti – “Jojo Rabbit”, la lista di chi si è cimentato nell’impresa con successo sta lì a dimostrarlo.

Leon Prudovsky s’inserisce nella scia e tenta a sua volta di raccontare l’inenarrabile demolendolo dall’interno. L’originalità de “Il mio vicino Adolf” (presentato in Piazza Grande al Festival di Locarno) sta prima di tutto nell’approccio: rispetto agli illustri predecessori, il regista israeliano sceglie infatti un tono ondivago e all’esuberante verve di Benigni, all’umorismo yiddish di Mihăileanu o alla satira dissacrante di Waititi, preferisce l’amarezza della black comedy. Per cui si ride, sì, ma a denti stretti. Leggerezza e malinconia, grottesco e introspezione convivono così su un sorriso a mezza bocca, in un film che schiva abilmente le trappole e riesce a mantenere ferma la rotta.

Partendo da una premessa paradossale – un sopravvissuto ai campi di concentramento sospetta che il nuovo vicino di casa sia nientemeno che il Führer in persona – Prudovsky prima flirta coi luoghi comuni del sotto-filone “caccia ai nazisti” (“Operation Finale”, la serie Amazon “Hunters”), poi espande il raggio d’azione e usa l’assunto come trampolino per un’analisi psicologica dalle sfumature dolenti e inaspettate. Perché guardare in faccia il proprio peggior nemico (in questo caso nemesi di un popolo e, per estensione, dell’umanità intera) costringe in qualche modo a guardarsi dentro, in un gioco di specchi che la pellicola mette in scena evitando d’imboccare la via più scontata. Ordinarie beghe da vicinato diventano così pretesto per una delicata riflessione sull’odio, sul pregiudizio, sulla solitudine e non da ultimo sulla memoria, nell’impossibile tentativo di lenire la ferita più profonda del Novecento europeo. Se a condurre lo spettacolo sono poi due consumati professionisti come David Hayman e Udo Kier – sempre pronto, quest’ultimo, a mettere in gioco la propria immagine-icona – l’operazione fa il salto di qualità e da eccentrica singolarità diventa opera in grado di lasciare il segno. In particolar modo oggi, che di autori coraggiosi il Cinema ha disperato bisogno.

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