Speriamo che non decida di farsi un altro tatuaggio, perché quello in effetti è pressoché l’unico particolare discutibile nell’esistenza di Judi Dench, dama commendatrice dell’Eccellentissimo ordine dell’impero britannico. Il primo è arrivato con il suo ottantunesimo compleanno, e come giustamente hanno notato in molti, la scelta è caduta su un motto non esattamente originalissimo: “carpe diem”, scritto sotto il polso destro. Oggi che Judi è arrivata al novantesimo, speriamo non scelga di tatuarsi il simbolo dell’infinito vicino all’altro. Anche se poi, a dirla tutta, una delle cose più belle che l’età avanzata porta con sé è la consapevolezza che è sempre, sempre meglio fare quello che ci pare, compresi i tatuaggi brutti. Per il resto, come la stessa Dench aveva sottolineato in un’intervista rilasciata il giorno del suo ottantesimo, «non c’è niente di buono» nell’invecchiare. Oggi dice al Times che spera comunque di arrivare ai cento, nonostante il dispiacere per la morte, sopraggiunta negli ultimi due mesi, delle amiche di una vita Barbara Leigh-Hunt e Maggie Smith, anche loro nomi di primo piano dello spettacolo inglese. E che, per non pensare ai novanta, cercherà di convincersi di starne compiendo solo ventinove, di anni.
Magari, per farlo, ripenserà a quando quell’età l’aveva davvero. Erano i primi anni Sessanta, e Judi Dench era in tournée in Africa con la Royal Shakespeare Company di Peter O’Toole e Peggy Ashcroft. Interpretava Viola nella “Dodicesima notte”, e quando nell’ultimo atto della commedia il suo personaggio reincontrava il gemello perduto, il pubblico africano partecipava allo spettacolo in modo piuttosto vivace: testimoni dell’epoca raccontano che a Lagos, ad esempio, fu praticamente una sommossa popolare, con gli spettatori che lanciavano in aria i programmi e si precipitavano sul palco.
È una di quelle cose che possono succedere solo a teatro, mai al cinema, e uno dei tanti avvenimenti legati all’opera di Shakespeare che hanno animato la vita non solo artistica di Judi Dench. In più di settant’anni di carriera, infatti, ha interpretato quasi tutti i principali ruoli shakespeariani sul palcoscenico, dall’Ofelia del suo primo Amleto nel 1957 (aveva 22 anni) alla Paulina del Racconto d’inverno nel 2015 (ne aveva 81). E non c’è da stupirsi se la sua presenza graziò anche la pellicola d’esordio del più shakespeariano dei registi del cinema britannico, l’”Enrico V” di Kenneth Branagh – anche perché Judi è stata tra i membri fondatori della compagnia teatrale di Branagh, ma questa è un’altra storia. Si potrebbe scrivere un libro sull’amore tra il Bardo e l’attrice, e Judi Dench l’ha fatto. Lo cito perché è una miniera di aneddoti, se siete interessati alla storia del teatro inglese, e perché ha un titolo meraviglioso: “Shakespeare – The Man Who Pays the Rent”, “L’uomo che paga l’affitto”. Pare infatti che lei e l’amato marito Michael Williams, anche lui attore, nei primi anni del loro matrimonio scherzassero spesso sul ruolo fondamentale dello scrittore nelle loro vite, dal punto di vista economico e personale: Shakespeare li aveva fatti incontrare, Shakespeare continuava a offrir loro un lavoro e una passione divorante, specialmente nel caso di Judi. Nelle sette decadi di lavoro attoriale, infatti, lei si è davvero fermata solo due volte: per dare alla luce la figlia e per accudire Michael, morto per un tumore nel 2002.
Se la passione per il teatro è stata il carburante della prima parte della vita e della carriera di Judi Dench, la fama vera è arrivata negli ultimi quarant’anni circa, dopo i suoi cinquanta, grazie al cinema. E pensare che la prima volta che fece un provino cinematografico, all’inizio degli anni Sessanta, si sentì dire che aveva una faccia «sbagliata» per il cinema. Oggi quella stessa faccia ha più nomination agli Oscar di qualsiasi altra attrice inglese (otto, di cui uno a sola trasformatasi in vittoria, per il ruolo da non protagonista in “Shakespeare in Love”, nel quale appare per otto minuti totali, come ricordato anche da lei nel discorso di accettazione: l’ennesima dimostrazione della miopia dell’Academy americana).
È grazie al cinema, se Judi Dench oggi è nota quanto la regina, in Inghilterra, nel senso che è un simbolo di britishness come la casa reale. E a dirla tutta, di regine ne ha anche interpretate più d’una: Vittoria in “La mia regina” di John Madden e “Vittoria e Abdul” di Stephen Frears, Elisabetta I nel già citato “Shakespeare in Love”. Ma per diventare icona pop oltre i confini inglesi, è servito soprattutto il ruolo di M nei film della saga di 007, ricoperto sette volte a partire dal bellissimo Goldeneye, pellicola che ha segnato il primo tentativo di rilancio di Bond a metà Novanta. Dal Duemila in poi, la sua attività cinematografica si è fatta molto intensa: i feel-good movies con Lasse Hallstrom, i drammi psicologici con Richard Eyre e Stephen Frears (“Philomena”, forse il suo film migliore), fino alla quarta collaborazione con Kenneth Branagh per “Belfast”.
In ogni occasione, il talento di Judi splende nella naturalezza della recitazione, affinata nei decenni in cui ha sempre ricercato il rischio, sul palcoscenico come sul set, fino a diventare famosa per rifiutarsi di leggere e imparare i copioni prima di provare la prima volta con il regista. Un’allenata sicurezza davanti alla cinepresa che pare essere inversamente proporzionale alla sua vulnerabilità fuori dal palco. «Quando entro in una sala prove, il cappotto e la mia borsa devono essere vicini alla porta», ha detto. Ogni attore ha, del resto, il suo metodo per vincere l’insicurezza: quello di Judi Dench è di rendere tutto il più spaventoso possibile, come imparare a nuotare tuffandosi nell’acqua ghiacciata. Dopo tutti quei tuffi, l’idea di smettere non le passa neppure per la testa. Nella sua biografia “And Furthermore” scrive (o meglio, detta all’amico John Miller): «Ci sono persone che si impegnano per raggiungere una certa età, diciamo sessanta o sessantacinque anni, per andare in pensione. E ci si chiede: perché si va in pensione? Si va in pensione per fare le cose che si vogliono fare davvero, dopo aver avuto un lavoro che ci ha mantenuti occupati e ci ha dato un qualche tipo di reddito. Ma io sto già facendo adesso le cose che voglio fare, quindi non voglio andare in pensione. Gli attori sono persone straordinarie con cui stare, adoro la compagnia degli attori. La mia idea di inferno sarebbe uno one-woman show. L’idea di un gruppo di persone che lavora per un unico obiettivo mi attrae: è la cosa che ho sempre voluto fare e che ho la fortuna di fare. Non è necessario andare in pensione, se sei un’attrice: ci sono un sacco di parti che si possono interpretare stando a letto o su una sedia a rotelle.» O, nel caso di Judi Dench, anche senza vedere: ha ammesso infatti di essere ormai quasi sul punto di perdere la vista, a causa di una maculopatia degenerativa.
L’unica cosa che Judi Dench non ha raccontato – in migliaia di interviste, almeno tre biografie e qualche documentario – è come ci riesca. Lei è uno di quegli attori che, ancora agli occhi dello spettatore smaliziato del ventunesimo secolo, riesce a rendere il mestiere misterioso e un po’ magico: possiamo studiare il modo in cui, quando recita, riesce a rendere i silenzi eloquenti e significativi; analizzare come racconta, solo con uno sguardo o un’alzata di sopracciglio, l’umanità dei suoi personaggi. Ma non capiamo esattamente da dove vengano quella naturalezza, quella capacità di convincere, quella versatilità. Lei, dal vanto suo, si guarda bene dallo spiegarcelo, nascosta dietro un’impenetrabile armatura di irresistibile ironia, che la accompagna in ogni occasione pubblica. Forse perché sa che dare un nome a quella magia potrebbe farla sparire. E lei, dopo averla coltivata per tutta la vita, certo non vuole rischiare di perderla a novant’anni.

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Il divano di spade 07.12.2024, 18:00
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