Cinema

L’ultima stagione del palcoscenico

Il “tempo perduto” del teatro “all’antica italiana” nei ricordi di Sergio Tofano. Storia di un glorioso declino  

  • 19 luglio, 08:59
Sergio Tofano

Sergio Tofano.

Di: Mattia Mantovani

Il “catalogo”, che per inevitabile proprietà transitiva fa quasi pensare al Leporello del Don Giovanni di Mozart, è “questo”. Ed è molto ampio: teatro della crudeltà, teatro epico, teatro dell’assurdo, teatro povero, teatro mortale, teatro inutile, drammaturgia della casualità, drammaturgia del disagio del corpo. Tutto molto vero, e soprattutto molto serio, perfino serioso. Ma ci sono anche le “cantine”, le surreali recite in calzamaglia gustosamente parodiate da Nanni Moretti nel film d’esordio Io sono un autarchico, oppure le tragicomiche esperienze col teatro d’avanguardia (erano i tempi -leggendari quanto archeologici- del Living Theatre) raccontate da Paolo Villaggio nella trilogia narrativa dedicata al ragionier Ugo Fantozzi. Senza dimenticare il tipo socio-antropologico dello “spettatore addormentato” di Ennio Flaiano: il dormiveglia quale condizione perfetta per cogliere e assimilare i contenuti che dal palcoscenico si riversano in platea e infine, molto più attenuati, nella cosiddetta piccionaia. Una provocazione, ovviamente, tutta giocata sul sottilissimo e cedevole crinale del paradosso, ma non priva di profonde e disorientanti implicazioni. 

Comunque sia, nel corso del Novecento si è scritto e teorizzato tantissimo sul teatro, eppure sono pochi i libri che hanno restituito il teatro stesso nella sua più intima concretezza, nel suo farsi e divenire, e soprattutto lo hanno fatto in maniera simpatica e scanzonata, ironica e autoironica, sul filo di una memoria senza dubbio screziata di malinconia ma anche intrisa della consapevolezza che nel teatro, come in ogni altro ambito della vita, il proustiano tempo perduto è davvero perduto e la memoria può farne rivivere soltanto le ombre, i fantasmi, le morte spoglie. 

Tra i libri che hanno raccontato il teatro dall’interno del teatro merita una menzione particolare Il teatro all’antica italiana, un meraviglioso volumetto di Sergio Tofano, uscito originariamente nel 1965 e più volte ristampato, che ha avuto l’inestimabile merito di trasmettere a futura memoria l’ultima grande stagione del teatro italiano e la definitiva scomparsa dell’eredità della Commedia dell’Arte prima dell’avvento del teatro di regia, che soprattutto in Italia -dove arrivò con un ritardo di qualche decennio rispetto alla Francia, alla Germania e ai paesi scandinavi- segnò l’inizio di una nuova epoca. Beninteso, un’epoca senza dubbio non peggiore ma comunque diversa, anche dal punto di vista della fruizione da parte del pubblico e soprattutto della funzione del teatro nella vita sociale.

Sergio Tofano

Sergio Tofano.

Nato a Roma il 20 agosto 1886 e morto il 28 ottobre 1973, conosciuto soprattutto come inventore del personaggio del Signor Bonaventura sul Corriere dei Piccoli, attore, regista e sceneggiatore, Sergio Tofano fu tra i migliori caratteristi dell’epoca, non solo in ambito teatrale, ma anche cinematografico, dove  era solito interpretare la parte del cosiddetto “brillante”: l’uomo di mondo, sensibile, elegante e un po’ svagato. Ne Il teatro all’antica italiana il suo ruolo, magnificamente interpretato, è invece quello del testimone che scrive “dopo la fine” e racconta la storia di un declino. Un declino glorioso, non privo di grandi e grandissimi momenti, ma pur sempre un declino. In fondo, il destino del teatro in quello che sarà poi il “secolo breve” lo aveva già intuito Mark Twain nella seconda metà dell’Ottocento, quando aveva osservato che «la realtà supera la finzione, perché la finzione deve contenere la verosimiglianza, la realtà invece no».

Omaggio a Sergio Tofano

Nella tana del bianconiglio 02.09.2023, 16:00

Alla presente altezza cronologica, in un mondo tecnologizzato in cui tutto è finzione, informazione (o presunta tale), egotismo di seconda mano, messinscena e racconto, e cioè reinvenzione di una realtà sempre più irreale e ridotta a mera verosimiglianza, è molto difficile che il palcoscenico possa restituire una dimensione della vita che sfugga alla gabbia delle contingenze, così come è oggettivamente difficile proporre repertori che non obbediscano il più delle volte a uno stanco dovere culturale. E’ anche per questi motivi che ormai, come diceva in maniera volutamente outrée il già ricordato Flaiano, il vero teatro è forse quello che si svolge fuori dal teatro, recitato da una variopinta e anonima canaglia sullo sfondo di quinte di cartapesta che una strana illusione ottica ci fa sembrare “reali”: nella tragicommedia più o meno virtuale della vita quotidiana che non va da nessuna parte, nel nulla comune in cui si è tutti immersi senza volerlo, spesso senza saperlo, quasi sempre senza capirlo. Si comprende quindi che i ricordi di Tofano non hanno perso nulla quanto a impatto e suggestione, perché ci parlano più che mai da una vicinissima e vibrante lontananza.

Anche il “teatro all’antica italiana” era ovviamente una finzione, ma una finzione nella quale si credeva in maniera più convinta, così come si crede -con ingenua sincerità- nel senso e nel significato di una missione, magari contro ogni evidenza. L’espressione “teatro all’antica italiana”, formulazione a dire il vero un po’ spuria che nasce da quello che ai tempi si definiva “repertorio all’antica italiana”, indica il teatro italiano dei primi trent’anni del Novecento, che scomparve sotto le macerie della seconda guerra mondiale e infine, dal secondo dopoguerra in poi, fu sostituito dal teatro di regia.

Sergio Tofano, che fu uno dei protagonisti di quella stagione, l’ha rievocata negli ultimi anni di vita, o per meglio dire ne ha rievocato le ombre e i fantasmi: i mattatori, la rigida suddivisione in ruoli, la figura del brillante, dell’amoroso, dell’ingenua, l’attrezzeria di scena, i poeti di compagnia, la vita non propriamente hollywoodiana degli attori meno celebri (il red carpet e la fiera delle vanità verranno dopo, molto dopo), gli scomodissimi spostamenti notturni di città in città, rievocati anche da Federico Fellini e Alberto Lattuada nel film del 1950 Luci del varietà.

È sempre dallo svanire che nascono i racconti. Tofano ne è pienamente consapevole, quando osserva nella nota introduttiva: «Il capovolgimento della vita teatrale prodotto dagli avvenimenti politici e militari di quegli anni ci fanno apparire il teatro all’antica italiana sperduto nelle lontananze della memoria. Di questo teatro, per tutti coloro che, avendo la fortuna di essere più giovani di noi, non conservano di esso che ricordi incompleti, o addirittura non ne hanno conoscenza diretta, abbiamo pensato di raccogliere e raccontare qui tutti quelli che erano gli usi e i costumi, i gusti, i metodi, le tendenze, le forme, i mezzi, le risorse, le possibilità e le capacità e le manifestazioni del suo organico, sia sul piano artistico che su quello tecnico e pratico». Il tentativo, spiega poco oltre lo stesso Tofano, consiste nel «descrivere e spiegare la vita di un periodo teatrale che un abisso, l’abisso della guerra, separa dal nostro».

Un periodo teatrale nel quale i grandi mattatori come Zacconi e Novelli (i cosiddetti “padreterni”), pur di rimanere sulla scena per raccogliere l’ovazione finale, arrivavano perfino a cambiare l’ordine di importanza dei personaggi negli Spettri di Ibsen, oppure -con buona pace del povero Shylock- sopprimevano l’ultimo atto de Il mercante di Venezia di Shakespeare (osserva Tofano al proposito: «L’applauso è l’idolo al quale ogni sera l’attore immola un poco della sua dignità»). Si tratta a dire il vero di una pratica non inusuale anche nel successivo teatro di regia, ma perseguita spesso con uno scopo differente: quello di «appropriarsi delle piume del pavone», come diceva velenosamente il fumantino Strindberg. Alcuni celebri e celeberrimi registi, ad esempio, hanno considerato e considerano tuttora Una casa di bambola del già ricordato Ibsen alla stregua di un puzzle modellabile e rimodellabile a piacimento. Per non parlare di Cechov, le cui commedie, contrariamente alle inequivocabili indicazioni lasciate dall’autore in numerosi scritti, continuano ad essere recitate con pose, enfasi e birignao da tragedia greca.

Cosa dire di un celebre mattatore (Tofano ne tace pietosamente il nome) che era solito ripetere «Il teatro sono me…»? E poi le ineffabili primedonne, in particolare una famosissima attrice con «sofisticate pose» di svenevolezza, che «sulla porta del suo camerino faceva incollare, volta per volta, non il suo nome, ma quello del personaggio che quella sera impersonava». E infine le traduzioni, che erano quasi sempre dei frettolosi e maldestri calchi dal francese e producevano effetti surreali e involontariamente comici, come nel caso del seguente scambio di battute (ma Tofano cita numerosissimi esempi): «La cameriera entrando dice al padrone - Si domanda di voi. E il padrone alla cameriera: - Hanno tirato il campanello, andate ad aprire. – Tutto di seguito, risponde la cameriera. E il padrone aggiunge: - Sortendo, fermate la porta».

Quella che si profila, pagina dopo pagina e ricordo dopo ricordo, prima che cali definitivamente il sipario del tempo, è una vera e propria enciclopedia, impreziosita peraltro da un ricchissimo glossario. I portaceste, la batterella, gli ultimi, gli ultimissimi, l’argante, il registro delle firme, il buco nel sipario e molto altro ancora: tutti termini che allo “spettatore addormentato” di oggi -che secondo lo scettico e disilluso Tofano non vede l’ora di lasciare il teatro, dopo lo spettacolo, nel timore di perdere il tram oppure perché, dopo il matinée, ha fretta di completare lo shopping- dicono probabilmente poco o nulla (piccola notazione a margine: all’epoca non esistevano ancora i telefoni cellulari, che nei concerti rock, quando dal palcoscenico si riversano le note di qualche ruffiana ballatona strappalacrime, hanno sostituito gli accendini, ma nelle platee dei teatri sono una presenza fastidiosa e producono un “effetto di straniamento” non propriamente brechtiano).

Altri tempi, altri sogni, diceva il Poeta. Comunque sia, Tofano li ha fatti rivivere, con abbagliante nitidezza, nella prosa elegante e ricercata e nelle densissime pagine di un volumetto davvero straordinario, ben consapevole di aver sollevato «un venticello che si direbbe di nostalgia». Ma non mancando di aggiungere, a giusta ragione: «E forse lo è, ma niente più che una breve folata - neanche, uno spiffero fugace che il benigno lettore ci vorrà perdonare, considerando che tanta parte della nostra vita e del nostro lavoro si è svolta in quel perduto passato».

  • Don Giovanni
  • Nanni Moretti
  • Paolo Villaggio
  • Ugo Fantozzi
  • Ennio Flaiano
  • Sergio Tofano
  • Signor Bonaventura
  • Mark Twain
  • Flaiano
  • Tofano
  • Federico Fellini
  • Alberto Lattuada
  • Zacconi
  • Novelli
  • Shylock
  • Strindberg
  • Cechov
  • Poeta
  • Italia
  • Germania
  • Roma
  • italiano
  • brechtiano

Ti potrebbe interessare