Cinema

La faccia felice dell’America

Aveva detto che sarebbe sparito e invece è tornato in formato 2X1, al doppio servizio di Sonic III. Breve storia allegra (ma non troppo) di Jim Carrey, l’ignorato di Hollywood

  • Ieri, 11:00
  • Ieri, 23:47
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  • Keystone
Di: Alessandro De Bon 

Nel 2024, due anni dopo aver annunciato il suo ritiro dalle scene, era sul set di Sonic III, il film con cui il 2025 ha esordito in sala. E non per fare un cameo, non per una parte, ma per ben due ruoli nello stesso film: Ivo e Gerald Robotnik, Eggman e suo nonno. Perché? Perché smentirsi? Perché ricomparire sul da set da cui aveva salutato tutti e tornare addirittura con un 2X1? “Perché ho bisogno di soldi, ho comprato tante cose!”. Lui, il primo attore comico della storia di Hollywood ad aver intascato un assegno di 20 milioni di dollari per un film che — a questo punto — pare una premonizione di colpevolezza: Bugiardo bugiardo (Tom Shadyac, 1997). Macché! Jim Carrey non è bugiardo alla seconda, è sincero alla prima; in tutte le prime volte in cui dice qualcosa: sincero quando vuole ritirarsi per dipingere e meditare, sincero quando racconta di comprare tante cose spendendo una valanga di denaro, sincero quando meno di 24 mesi fa cucù da quel sipario che lui stesso ha abbassato perché ha bisogno di soldi per — immaginiamo — comprarne altre, di cose. Sincero come le risate che fa esplodere, sincero come l’empatia con cui sembra essere stata modellata la sua faccia di pongo, sincero come il groppo in gola che annoda quando non fa soltanto ridere.

Jim Carrey è una religione laica, uno nomeecognome tutto attaccato in cui credi senza aver bisogno di un Aldilà, perché di ultraterreno c’è già la sua faccia. È una regola confermata dalle eccezioni: se c’è lui va già bene così. O quantomeno è andata bene, anzi benissimo così nel decennio d’oro contenuto tra il 1994 della trinità comica Ace Ventura - The Mask - Scemo e più Scemo (di Shadyac, Russell, Farrelly) e il 2004 dello tsunami emotivo Eternal Sunshine of the Spotless Mind di Michel Gondry, massimo esponente del sadismo traduttore italiano in quell’imperdonabile Se mi lasci ti cancello. E in mezzo The Truman Show (Peter Weir, 1998), Man on the Moon (Miloš Forman) e Il Grinch (Ron Howard, 2000).
Eppure segnali ce n’erano già stati ben prima di questo ilare ben di Dio durato molto più della sua proverbiale settimana; le fugaci apparizioni sui set di Francis Ford Coppola (Peggie Sue si è sposata, 1986) e Clint Eastwood (Scommessa con la morte, 1988) avrebbero dovuto dirci qualcosa. Soprattutto avrebbero dovuto dirlo a Eastwood, a cui da anni Carrey aveva rubato la faccia. A lui, a Jack Nicholson, a Bob De Niro, James Dean, Martin Scorsese, Steve Martin… Persone e personaggi a cui con uno sbalorditivo esercizio di morphing analogico, di assorbimento espressivo, Carrey riesce fisicamente a clonare la faccia, diventando le labbra dell’Ispettore Callaghan, lo sguardo di Gioventù bruciata e gli occhi di Shining. E forse è per questo che Jim Carrey non ha mai vinto un Premio Oscar (ci torneremo…): perché lui può diventare chiunque li abbia vinti. Così come riesce a diventare le domande che gli fanno durante un autografo (qui) e i momenti che gli hanno chiesto di presentare una miriade di volte; uno fra tutti i sei minuti di irresistibile e devoto delirio con cui nel 1994 ha premiato Meryl Streep alla cerimonia dell’American Film Institute. Cinque minuti e cinquanta secondi di comicità pura, chiusi dai dieci secondi della più dolce, sincera e innamorata dedica d’amore cinefilo.

Jim Carrey non solo non ha mai vinto un Oscar, traiettoria beffarda che condivide - tra i tanti - con Glenn Close, Harrison Ford, Kevin Costner, Johnny Depp, Sigourney Weaver o Bill Murray. Jim Carrey, a differenza di tutti loro, non è mai stato nemmeno nominato. Non pervenuto, zero assoluto, invisibile. Nemmeno in quel 1999 in cui si portò a casa il Golden Globe per Man on the Moon di Miloš Forman. Al suo posto, sul palco del Kodak Theatre di Los Angeles, c’erano il vincitore Roberto Benigni, Tom Hanks, Edward Norton, Ian McKellen e Nick Nolte. La reazione dell’ignorato? Questa:

Sul piccolo, sul grande schermo, o là dove lo possiamo vedere noi con camice strambe, completi di una taglia di troppo, rasato o barbuto, ospite o conduttore, Jim Carrey è la faccia degli altri. Dei suoi colleghi, ma pure la nostra. È la faccia tosta del dir quello che si pensa, la faccia nuda del provare quel che si sente, del piangere quel che ci solca e del ridere quel che ci sganascia. Jim Carrey è la faccia del nostro essere perfetti idioti e esseri delicati; è la nostra allegria e la nostra paura, la nostra leggerezza e il nostro buio, il nostro correre a piedi nudi e il nostro inciampare. È il nostro grammelot allo specchio e il nostro monologo alla luna, la nostra scorreggia in ascensore e il nostro pianto in auto. Show comico e tunnel depressivo, carriera e biografia. Jim Carrey è il nostro peso specifico. Lo è perché ha sempre voluto esserlo, lasciando la scuola e inondando l’industria di curriculum e provini perché l’unica cosa che voleva fare era quella: la faccia degli altri, con la sua. Una faccia ultraterrena su un corpo lungo e in balia del movimento, come un gonfiabile da grande magazzino a cui in cima sono esplosi i capelli. Jim Carrey è la gioia dirompente e talvolta malinconica del sentirsi veri e liberi, semplici e complessi; anche se per capirlo, o riuscire a osservarlo, serve un’iperbole. Ancora la sua faccia. 

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Jim Carrey

Il Recensore 08.08.2022, 21:30

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