Siccome gli inglesi sono sempre i più bravi, quando si tratta di comporre un coccodrillo per qualche morto famoso, nel 2006 il ricordo più bello di Robert Altman era probabilmente quello del quotidiano londinese The Guardian. Parlava delle alterne fortune commerciali del regista, capaci di conferire alla sua carriera «una nobiltà donchisciottesca», e poi citava Elliot Gould, uno dei suoi attori feticcio, che lo paragonava al generale Custer: «[Altman] Sembrava sempre sul punto di subire una sconfitta eterna». Eppure, a cent’anni dalla nascita e quasi venti dalla morte, possiamo dire che il suo cinema sia stato, nel complesso, una battaglia vinta.
Del resto, il regista di M*A*S*H*, Nashville e Gosford Park è riuscito a diventare un’icona della New Hollywood – forse la cosa migliore capitata al cinema americano nell’ultimo secolo – pur arrivando in ritardo, e pur avendo ricevuto gloria a onori in misura assai minore rispetto ai registi considerati suoi coevi. Era nato nel 1925: quando Martin Scorsese e Francis Ford Coppola si affacciavano al mondo, lui aveva già vent’anni.
A differenza dei suoi colleghi passati dalle scuole di cinema, Altman aveva trascorso la giovinezza pilotando bombardieri americani sul Pacifico durante la Seconda Guerra Mondiale. Tornato dalla guerra, aveva avviato con due soci un’azienda che si occupava di tatuare cani (ovviamente non per bellezza: era la forma di identificazione più semplice, prima dell’introduzione dei chip RIFD). Purtroppo, uno dei soci era fuggito in Irlanda con la cassa, e quel promettente progetto era diventato il suo primo fallimento. Che però non venne per nuocere, visto che servì a indirizzarlo verso attività più creative. Prima, la scrittura, ovviamente da autodidatta: erano gli anni Quaranta, non c’era una masterclass per ogni cosa. Finì che riuscì a vendere un paio di sceneggiature alla RKO (che ai tempi non era tanto male, se consideriamo che aveva sotto contratto gente come Cary Grant, Ginger Rogers, Fred Astaire e Katharine Hepburn), ma poi più niente. Altro fallimento.
Robert dovette tornarsene a casa, a Kansas City, dove riuscì a coronare il suo sogno di fare cinema. Cioè, più o meno: trovò lavoro presso la Calvin Company, che realizzava filmati di formazione, spot pubblicitari e documentari per una varietà di organizzazioni e aziende, tra cui General Mills, Goodyear, DuPont, e naturalmente il governo federale. Lì Altman produsse il suo primo cinema, che era già rivoluzionario: se doveva girare uno spot, o un filmato educational, usava inquadrature strane e inaspettate, sperimentava con il sound design, e veniva spesso riportato all’ordine dai manager della Calvin, che non lo sopportavano. Il buongiorno si vedeva dal mattino: una volta arrivato a Hollywood, sarebbe diventato la nemesi di molti produttori, a cui lui stesso riservava la massima ostilità.
Robert Kolker, storico critico americano, è arrivato a paragonare l’atteggiamento di Altman nei confronti degli studios a quello del Richard Nixon raccontato nel suo Secret Honor del 1984: nel finale del film, l’ex-presidente urla un deciso «Fuck ‘em!» (lascio la traduzione a chi legge) a tutti i suoi nemici, agli elettori, alla stampa. Urla, mentre la sua immagine viene moltiplicata sui monitor televisivi del suo ufficio. E pur senza il contorno di follia paranoide di quel Nixon fittizio, non si può negare che Altman si sia distinto nel corso di tutta la carriera per il metaforico dito medio mostrato al sistema, e per il suo insistere nel lavorare da vero indipendente: era capace di trovare finanziamenti dalle fonti più inaspettate, lavorava con budget limitati e in fretta, e trovava sempre il sostegno degli amici e degli attori, che con lui sentivano di poter dare il loro contributo al film. Si sentivano, per usare un termine banale quanto calzante, liberi. Ma in realtà erano tutti gli uomini e le donne del cinema, ad amare Altman, fin dall’inizio. Ad esempio, Alfred Hitchcock.
Dopo la Calvin, infatti, Altman riuscì a realizzare il suo primo lungometraggio (The Delinquents, inedito dalle nostre parti), facendoselo finanziare da un imprenditore di Kansas City, Elmer Rhoden Jr., proprietario di una catena di sale cinematografiche. Hitchcock vide il film, e rimase così colpito da offrire a Altman un lavoro nel suo programma televisivo Alfred Hitchcock presenta. Robert durò due puntate, poi litigò con il produttore e fece di nuovo le valigie. Arrivati a questo punto, è inutile insistere con la parola “fallimento”: si trattava semplicemente del suo modus operandi, e va bene così.
Probabilmente, Altman non amava l’idea del successo. O almeno, nutriva dei sentimenti ambivalenti nei confronti di quella parola, che a Hollywood dovrebbe rappresentare semplicemente il massimo.
Quando il successo arrivò, aveva 45 anni, e fu inaspettato: M*A*S*H* era un war movie che andava contro quasi tutti gli stereotipi del genere, per il tono stralunato, per il sottotesto anarcoide, per l’idea stessa di mettere in scena un gruppo di medici militari di prima linea sessuomani e ubriaconi. Soprattutto, non identificava il nemico nei comunisti di turno, ma negli spietati burocrati e ufficiali che decidevano le sorti dei soldati al fronte. Quando giunse nelle mani di Altman, la sceneggiatura era stata rifiutata già da una quindicina di registi. Finì con la vittoria della Palma d’Oro a Cannes, cinque nomination agli Oscar, i critici che si spellavano le mani. E 82 milioni di dollari dell’epoca al botteghino, che considerando l’inflazione corrispondono a quasi 500 di oggi: un incasso di livello Frozen, o Signore degli anelli, per intenderci. Eppure (o forse, proprio per quello), parlandone negli anni successivi il regista tendeva sempre a minimizzare. Cito dal New York Times: «M*A*S*H* era un film piuttosto buono, perché non era quello che la 20th Century Fox voleva… Quando l’hanno visto la prima volta, hanno tagliato tutto il sangue. Ho lottato per proteggerlo, con le unghie e con i denti […] Credo sia diventato popolare perché è arrivato nel momento giusto. È considerato importante, ma non è meglio, e neanche più importante, di tutti gli altri film che ho fatto».
Qualunque cosa ne pensasse il suo autore, in ogni caso, M*A*S*H* è importante. Ed è un successo. Se non altro, perché rappresenta il primo vero esempio di film collettivo della sua carriera: dal 1970 in poi saranno i grandi cast e le narrazioni polifoniche, con tanti personaggi che si parlano sopra, a diventare il tratto distintivo del suo cinema, sublimato nei capolavori Nashville (1975) e America oggi (1993). “Film collettivo” può significare, per Altman, qualsiasi cosa stia tra l’analisi di un microcosmo chiuso (Buffalo Bill e gli indiani, ma anche, in modo diverso, Gosford Park) e la composizione di un mosaico (il già citato America Oggi), ma non è difficile notare che anche i film che sembrano avere un più tradizionale, singolo protagonista, in realtà lo usano come centro di gravità intorno a cui far ruotare tante altre storie e voci diverse. In ogni caso – che al centro della storia ci sia effettivamente un gruppo ristretto, oppure un insieme di individui più sciolto – i film di Robert Altman quasi sempre trovano il loro senso nel sottolineare come siano solo le relazioni umane a dare fondamento a tensioni, conflitti, ansie, qualsiasi cosa serva da motore drammatico in un racconto. Forse Altman odiava i grandi studios hollywoodiani, ma senza dubbio amava il resto dell’umanità, e la celebrava a ogni pellicola.
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100 anni di Robert Altman
Alphaville 19.02.2025, 12:35
Contenuto audio
Nei suoi grandi affreschi, che siano successi o flop, Altman non cambia mai il suo modo di fare, continuando a contraddire le regole base della sceneggiatura hollywoodiana, facendo largo uso di personaggi apparentemente poco importanti, di dettagli che non portano da nessuna parte. I film hollywoodiani solitamente corrono verso i loro fondamentali turning point, preparano con cura l’inevitabile climax finale… quelli di Altman, al contrario, si muovono pigramente. In Prêt-à-Porter, un incontro segreto tra due uomini che indossano cravatte identiche sembra importantissimo, ma viene presto sepolto da una pletora di altri episodi, di conversazioni, di incontri tra i vari personaggi che animano la settimana della moda di Parigi. Paolo Mereghetti ha scritto: «Non c’era bisogno di girare un film così lungo, per arrivare alla moda come maschera del vuoto, e a innumerevoli cacche di cane che finiscono per sporcare le suole di scarpe raffinate». Fallimento critico? Forse. E forse Mereghetti ha ragione, ma a Altman piaceva così, e quando il meccanismo funzionava, ogni spettatore godeva della sua capacità di sostituire lo sviluppo lineare con nodi di azioni simultanee, degli spazi pieni di azioni, voci, storia, delle inquadrature colme del maggior numero possibile di personaggi. Una densità visiva che veniva amplificata da quella sonora, con dialoghi che si sovrapponevano, e la musica che spesso si prendeva la scena: allo spettatore spesso veniva lasciato il compito di interpretare questa complessità, di trovare i punti fermi a cui agganciare la sua attenzione, ma anche – soprattutto – di aggiungere il suo punto di vista a quelli molteplici dei personaggi. Altman, al contrario di molti altri, non ha mai trattato lo spettatore come un bambino incapace. E sarebbe facile dire che il suo cinema ha anticipato il florilegio di film collettivi che abbiamo visto negli ultimi 25 anni.
Altman ha messo in scena storie capaci di ricordare che l’ordine, nell’esistenza umana, è impossibile. Film che raramente forniscono risposte e preferiscono continuare a porre domande, a suggerire connessioni, somiglianze e parallelismi tra individui e situazioni apparentemente lontani. Chissà cosa avrebbe pensato nel vedere il mondo di oggi, così globalizzato, così piccolo, così denso e pieno di rumore di fondo. Proprio come i suoi film, verrebbe da dire.
Ma quelli potevano almeno contare sulla bellezza: noialtri che viviamo fuori dallo schermo, non ne siamo più tanto sicuri.