Il 21 gennaio 1992, Le iene viene proiettato al Sundance Film Festival, che ai tempi stava tentando di costruire una vera e propria rete (pre-internet) di comunicazione artistica tra i registi del cinema americano alternativo. Oggi, Le iene è il primo film citato da Robert Redford quando si tratta di parlare della storia del suo festival.
Il 23 maggio 1994, a Pulp Fiction viene assegnata la Palma d’Oro al festival di Cannes, dalla giuria presieduta da Clint Eastwood. Mentre Quentin Tarantino, incredulo ed estasiato, si avvicina al microfono per il suo discorso di accettazione, una signora (giornalista? Nobildonna francese? Le ricostruzioni sul punto divergono, e finiscono per sfumare nella leggenda) dalla platea grida più volte: “Mais quelle daube!”. Non sappiamo se Tarantino (che del resto si è sempre definito un “francofilo”) avesse già avuto a che fare con quella parola – che in italiano può essere tradotta con un ventaglio di significati che vanno da “pasticcio” a “schifezza” a “merda” – ma il senso lo capisce subito, e risponde alzando il dito medio verso la signora. Un’altra prima volta, per il palco di Cannes. Un americano senza dubbio diverso da quelli premiati in precedenza, non esattamente nomi di secondo piano: Orson Welles, Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, Billy Wilder, Walt Disney, Cecil B. DeMille, Robert Altman, David Lynch…
Uma Thurman in una scena di "Pulp Fiction"
In quei due anni (anche grazie al mai abbastanza ricordato Una vita al massimo, diretto da Tony Scott, su sceneggiatura di Tarantino) vengono gettate le fondamenta del mito tarantiniano: il cinema americano aveva trovato una nuova voce, che poteva provocare reazioni di odio o amore (Todd McCarthy di Variety, tra i primi a recensire Le iene, l’aveva definito “un’opera di grande effetto”. Sono d’accordo con lui), ma senza dubbio non lasciava indifferenti. Dal podio di Cannes, Tarantino aveva commentato: “I miei non sono film che uniscono le persone. Più spesso, le dividono”.
Rivoluzione e tradizione nel cinema di Quentin Tarantino
Trent’anni dopo, ora che Tarantino sta producendo quello che potrebbe essere il suo ultimo film (ha sempre detto di volersi fermare a dieci), è ancora vero? Com’è cambiata Hollywood, com’è cambiato il cinema di Tarantino, dai tempi del suo trionfale arrivo sulla scena?
In un certo senso, il rivoluzionario Tarantino sembra essere diventato un tradizionalista del cinema. O forse lo è sempre stato? Difficile a dirsi. Se i suoi primi film stupivano per l’uso del tempo (decostruito), dello spazio (molto spesso chiuso) e della parola (logorroica e contemporanea, dall'analisi dei testi di Madonna alla semantica dei menu di McDonald’s), gli ultimi hanno overture e colonne sonore di Morricone (The Hateful Eight), ambientazioni rétro e – perfino – happy ending (C’era una volta a… Hollywood). Ancora più tradizionalista potrebbe apparire la fissazione di Tarantino per i supporti analogici e contro la tecnologia digitale: “Mi fa strano quando vado a vedere un film e mi accorgo che è girato in digitale o proiettato in digitale... per me la magia del cinema è legata al 35 mm”, ha detto qualche anno fa. E anche se probabilmente avrà rivisto questa posizione, oggi diventata pressoché insostenibile, il suo hobby di acquistare vecchi cinema a Los Angeles per rimetterli in funzione (o l'intero stock dell'ex videoteca in cui lavorava da ragazzo), mostra chiaramente l’immagine di un regista più in sintonia con il passato analogico del cinema che con il suo futuro digitale. Eppure la Rivoluzione tarantiniana non è morta, piuttosto è diventata Evoluzione. E la nostalgia non è un virus letale per la creatività, ma un carburante per continuare a percorrere la sua strada, da un’immagine all’altra. Perché certo – nonostante il giustissimo, universale apprezzamento per le sue sceneggiature – sono le immagini l’ossessione di Tarantino, per sua stessa ammissione ex-dislessico con difficoltà nella lettura dei testi scritti, ma da sempre affascinato dalle immagini del cinema. Già, l’immagine. L’immagine, sopra ogni cosa.
Tarantino regista ideale del ventunesimo secolo
Se si pensa al suo cinema come un corpo unico (idea che lui stesso sostiene più o meno ogni volta che presenta un nuovo film), appare chiaro come Tarantino lo abbia fatto evolvere: prima le grandi riletture del noir del trittico Le iene – Pulp Fiction – Jackie Brown, poi un doppio binario. Da una parte le riflessioni sulla storia e il ruolo dell’America, in Django Unchained e Bastardi senza gloria e ancora in C’era una volta a… Hollywood, dall’altra il puro amore per i generi di Kill Bill, Grindhouse e The Hateful Eight. Tutti insieme, compongono quel catalogo di riferimenti, citazioni, plagi che Tarantino usa come fosse una lingua condivisa, e che riesce a rendere comprensibile anche a chi non l’ha, come lui, parlata sin da bambino. È questa la grande critica che viene da sempre mossa nei suoi confronti: essere un deejay, non un autore.
Le iene
Anche Martin Scorsese ha detto qualcosa tipo: “L'eroe dei film di Tarantino è un tipo che uccide qualcuno e poi dice: ‘E allora? Chi se ne frega!’… Ma non lo faceva anche Godard, in un certo senso, nei suoi primi film? È davvero una cosa così nuova?” .
Lungi da me voler discutere di cinema con Scorsese (e pretendere pure di avere ragione), ma l'originalità e la novità sono temi di importanza relativa, di fronte al risultato altissimo di ogni film di Tarantino. Che è quello di portare davanti agli occhi dello spettatore la potenza del linguaggio del cinema, mettendo in mostra un vocabolario di immagini costruito attraverso un secolo di storia. A volte – come nel caso di Kill Bill – l’operazione è più trasparente, e permette di conseguenza anche ai critici meno preparati di battere sul tasto dell'eccesso di citazione. Così guardano il dito, e non vedono la meravigliosa luna che sta sullo schermo: una sintesi che riesce a mettere insieme i diversi linguaggi del cinema attraverso il tempo e lo spazio, trasformando in un nuovo esperanto immagini che provengono dai kung-fu flick orientali, dai polar francesi, dai western italiani – magari, perché no, con una spruzzata di pop latino.
Uma Thurman, "Kill Bill"
Al suo meglio, però, il cinema di Quentin Tarantino va oltre ogni citazione, oltre le caratteristiche che lo rendono il cinema perfetto per il ventunesimo secolo, anni in cui celebriamo la
retromania, il
nerdismo, e perfino le
copie delle copie delle idee, come forma d’arte. Certo, Tarantino è tutto questo. Ma è anche una cornucopia di – perdonate se continuo a battere sullo stesso tasto –
immagini, ognuna piena di bellezza, ironia, inquietudine, pericolo. Nel 1992, il Sundance Festival era preoccupato dalle inevitabili reazioni negative che un autore così violento avrebbe suscitato. Nel 2023, l’unica preoccupazione degli spettatori di mezzo mondo è che Tarantino smetta davvero di fare film dopo il decimo. Vorrebbe dire che ce ne potemmo godere ancora uno soltanto, ed è un pensiero davvero deprimente.