L’industria dello spettacolo sa ridere di se stessa. Lo dimostrano, per citare solo l’ultimo decennio, serie televisive che hanno trasformato in satira l’universo variegato dello show business. La francese Dix pour cent (2015), più nota come Call My Agent, ha svelato al grande pubblico il mondo delle agenzie per attori e registi, insieme alle isteriche dinamiche che caratterizzano i rapporti tra le due parti. La pluripremiata Hacks (2021) ha gettato uno sguardo cinico e disilluso sullo spietato mondo della stend up comedy, nonché su un rapporto intergenerazionale difficile. La serie The Franchise (2024), proiettandoci nella produzione di un film di super eroi, ha scoperto il velo dietro al quale si cela la macchina delle grandi saghe, croce e delizia di nerd e cinefili, mentre BoJack Horseman (2014) ha tracciato un profondo ritratto del vuoto esistenziale a cui può condurre la fama. Per restare nell’ultima decade si potrebbe in fine fare tappa alla quarta stagione di Boris, che dopo oltre dieci anni dalla “chiusura” è tornata più viva che mai per ricordare al pubblico le atroci frustrazioni del buon René Ferretti.
Da Roma a Holywood è un passo molto breve, perché le angosce di René sono più o meno le stesse di Matt Remick, produttore hollywoodiano interpretato da Seth Rogen e appena messo a campo di una delle più importanti produzioni d’America nella recente serie The Studio, realizzata da Apple TV+. Matt è a suo modo un sognatore. Crede negli autori, nel cinema come arte e nella possibilità di raggiungere il grande pubblico attraverso produzioni di qualità. In altre parole, come direbbe il critico David Thomson, crede ciecamente nell’esistenza di una “formula perfetta.” Al lider maximo Griffin Mill, interpretato da uno spumeggiante Bryan Cranston, interessano invece solamente i soldi. Del resto, se la Warner è riuscita a incassare miliardi grazie a una bambola di plastica, perché la sua Continental Studio non dovrebbero fare altrettanto con la loro nuova acquisizione? Quello di cui parla Griffin è un film incentrato sulla bevanda Kool-Aid e Matt è il prescelto per questa opera monumentale. Da qui il dramma del protagonista appena promosso a capo delle produzioni e costretto, tra bugie e insicurezze, a fare i conti con le spietate regole dell’industria, che troppo spesso piegano l’arte al puro commercio, in un eterno conflitto tra creatività e mercato, cuore e portafoglio.
Il primo episodio setta il tema fin dalle sue prime sequenze: in un mondo in cui il cinema si è ridotto a sfornare film sulla base di marchi di successo che possano garantire risultati al box office, realizzare prodotti di qualità è sempre più difficile, figurarsi sfornare arte. Eppure, c’è chi continua a sognare di poterlo fare. La satira colpisce inevitabilmente chiunque, dai produttori ottusi ai paladini del politicamente corretto, smontando gli stessi fautori di un cinema d’autore che fa del pianosequenza, protagonista non a caso del secondo episodio, il proprio sacro emblema. Seth Rogen, che con Evan Goldberg è anche ideatore della serie, è ben conscio di quanto le sue provocazioni lavorino a favore dello stesso sistema di cui i dieci episodi si prendono gioco, ma è un conflitto che coincide col suo ambivalente sentimento per Hollywood: “Ho un rapporto molto conflittuale con l’industria. Da un lato riconosco che mi ha dato cose grandiose, e per quanto frustrante possa essere a volte il mio lavoro, io ho la versione A-plus-plus di questa esperienza. E vedo altre persone che hanno la versione F-minus, che sono altrettanto talentuose quanto chi ha la versione A-plus-plus. È un’industria senza giustizia. Potresti essere la persona più talentuosa che ci sia e non farcela mai. Quindi vedo entrambi i lati.”

Del resto, come scriveva Horace McCoy, Hollywood è “la città più tremenda del mondo” e i protagonisti di The Studio ne sono pienamente consapevoli. Incastrati in un ambiente che amano in tutta la sua ipocrisia e del quale non potrebbero fare a meno, trascinano avanti le proprie carriere svuotati di una vita personale che è diventata tutt’uno col lavoro da cui dipendono, non solo economicamente. Difficile trovare delle note stonate negli episodi della seria, la regia attenta è puntualmente in linea con quanto narrato, ogni attore interpreta magistralmente il proprio ruolo, ogni battuta cade con la puntualità e l’efficacia di un metronomo. Divertenti i camei di grandi attori e registi nel ruolo di se stessi, ancora più notevoli gli interventi di chi, come Kathryn Hahn e Catherine O’Hara, domina la scena a ogni ingresso. O’Hara, che interpreta la producer a cui Matt ha soffiato il posto, si conferma un’icona della comicità, e anche se lei non si identifica con questo ritratto è felice che il pubblico le attribuisca questo ruolo. L’ironia e l’autoironia, in The Studio, sono del resto uno strumento di autoconservazione, così come, secondo O’Hara, dovrebbero esserlo nella vita: “Non c’è miglior istinto di sopravvivenza. Se cresci con questo, sei davvero fortunato. È uno dei doni più grandi di Dio, perché la vita è piena di luce e oscurità. Devi cercare la luce.”
Al cinema!
Tra le righe 17.04.2025, 14:00
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