Sentire parlare di Dio non è più così infrequente come lo era magari anche solo qualche decennio fa, quando il discorso relativo al fenomeno religioso era relegato nelle comunità di fede o negli ambienti vaticani, mentre il mondo laico, specialmente in Italia, riteneva il discorso sul religioso non particolarmente significativo, un po’ di retroguardia. Ora la parola “Dio” – e il bagaglio che si porta dietro – entra con disinvoltura nella pubblicistica laica, nei dibattiti culturali, nei salotti bene: naturalmente con molte semplificazioni e molti travisamenti, che ovviamente nessuno corregge, ma che si moltiplicano all’infinito, fino a non capire neppure più di che cosa si sta parlando: di testi fondativi? Di una vaga idea di spiritualità? Di consuetudini legate alla devozione popolare? Di letture e interpretazioni di seconda, terza, quarta mano?
Questi contesti non sembrano sfiorati dal sospetto che, forse, per parlare delle cose di Dio, o anche soltanto delle questioni storiche e culturali che intorno a questa parola si sono aggregate, occorrerebbe molta cautela, molto studio, molti pensieri dubbiosi, molta circospezione. Per fortuna però, parallelamente, si sono moltiplicati anche gli studi esegetici e storici intorno al fatto religioso. Si ha una conoscenza più esatta della formazione dei testi, della loro composizione, dei rimaneggiamenti, dei contesti che li hanno prodotti. Non è più scandaloso parlare di una “invenzione” di Dio, della sua nascita in contesti molto arcaici, che comprendono tutto il Medio Oriente antico, e che pian piano, faticosamente, in mezzo a una pluralità di dei e di figure divine, benevole o malevole, hanno elaborato quella immagine del Dio unico che costituisce il cuore della Bibbia ebraica e lo sfondo imprescindibile di quella anche cristiana.
Ma oggi l’impressione è che non basti più una accurata esegesi dei testi “sacri” per vincere il chiacchiericcio pseudoculturale, e neppure per rianimare quel senso dell’esperienza religiosa che sembra in gran parte perduto dentro il rumore confuso della società post secolare (parlo del mondo cosiddetto “occidentale”). Può anche essere che l’esperienza di fede – per come siamo stati abituati a pensarla nel contesto occidentale – sia giunta a un inevitabile declino.
Intervista a Karl Barth
RSI Cultura 25.08.2024, 12:33
Tuttavia penso anche che non si debba avere timore di una ridefinizione radicale del fenomeno religioso. La nostra è un’epoca di profonda trasformazione. Il presente mostra aspetti drammatici. Il futuro si annuncia denso di misteri e minacce. Ma siamo anche in presenza di un pensiero esigente, critico, avventuroso. Siamo di fronte a scoperte scientifiche affascinanti, a una rivoluzione tecnologica certamente preoccupante, ma anche capace di apportare cure benefiche alle ferite dell’umanità. Proprio per questo non dobbiamo temere, credo, di liberarci dalle gabbie delle dottrine, dai silenzi omertosi della coscienza, dalla zavorra di dettami morali che stridono proprio contro una dimensione etica che l’umanità ha faticosamente raggiunto. Ripensare radicalmente l’eredità religiosa che abbiamo ricevuto dal passato ci aiuterebbe a ripulire la mente da tante sterili incrostazioni, da tanti gravosi silenzi, da tanti ostacoli che fanno ombra a un procedere verso la conoscenza.
E dunque. Di che cosa parliamo quando parliamo di Dio? A me sembra che, in fin dei conti, le religioni siano elaborate costruzioni simboliche nate, sostanzialmente, per indagare la piccolezza dell’umano di fronte all’insondabile mistero dell’universo, da un lato. E dall’altro, per cercare di costruire un ordine sociale che permetta comunità invece di inimicizia, sollecitudine e cura invece di avversione e indifferenza.
Gli antichi hanno prodotto l’immagine di un Dio paterno e materno insieme, creatore e distruttore, misericordioso e tremendo, tenero verso le creature deboli e tremendo verso i trasgressori. Perché non vedere in questa contraddittoria “costruzione” il travaglio del pensiero umano per cercare di penetrare il mistero da cui sono avvolte le creature, la profondità dei cieli e degli universi, l’imprevedibilità e l’inconoscibilità della materia che ci circonda? Perché non accettare l’inarrestabile ricerca della scienza, senza cercare vanamente di trovare improbabili coincidenze tra scienza e fede? Non sarebbe un modo per dare conto della piccolezza umana e della grandezza del suo desiderio di conoscere ciò che è impensabile, inesprimibile, ineffabile?
Giovanni Luzzi, pastore e teologo
Segni dei tempi 02.11.2024, 12:00
Ma le vicende del religioso non riguardano solo l’interrogazione sul “Dio sconosciuto”, sulla meraviglia e lo sgomento che ci afferrano di fronte all’immensità di un cielo stellato. Riguardano anche i destini degli umani su questa terra, la loro necessità di convivenza, di sicurezza, e la loro incapacità di muoversi senza violare la pace, senza offendere il fratello, senza infierire su chi è più debole, o senza cercare di annientare chi ci fa paura. Tutta l’epopea delle religioni è piena di storie che ci raccontano, con pena e speranza, questa difficoltà del vivere, il laborioso cammino degli umani nella ricerca della giustizia, nella salvaguardia di un’idea di bene, nel sogno di una libertà mai raggiunta. Non avrebbe senso dispendere al vento quello sterminato patrimonio di sapienza, di cultura, di lacrime e sangue, di passione e di amore, di dolore e lutto, di sogno e speranza che è stato raccolto dentro il grande fiume delle religioni.
Sapendo anche, però, che le narrazioni su Dio e sulle fedi che abbiamo ereditato non sono che preziose “tracce di cammino” da studiare, da consultare, da interrogare per disegnare una mappa nel nostro andare. In quanto tali non sono “verità”. Piuttosto, minuscole scintille di realtà che, di tanto in tanto illuminano i nostri passi.
Da uno studioso del secolo scorso la Bibbia è stata chiamata il “grande codice” dell’Occidente. Oggi mi fa fatica pensare a un unico codice che possa contenere tutta la realtà stratiforme e indecifrabile della contemporaneità. Anche i codici da decifrare si sono moltiplicati. Piuttosto la potremmo chiamare un grande patrimonio, un grande “tesoro” dell’umanità, che non teme di competere con altri tesori. Ma che dà un contributo preziosissimo e ineliminabile nel comprendere, contenere, orientare i sussulti inquieti delle nostre vite.
Per una nuova spiritualità protestante
Tempo dello spirito 29.09.2024, 08:00
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Un grande tesoro va goduto e custodito. Non nascosto e trascurato. Ma neppure idolatrato senza discernimento. Se ne fa “studio” e “memoria” e “insegnamento”. Quello che va cercato non è a tutti i costi il senso di una “finalità” nella storia del mondo, ma di come continuare a cercare quel minimo denominatore comune che ci permetta di realizzare più comunità e meno ferocia, più amicizia e meno inimicizia, più costruzione e meno distruttività.
Il Post-teismo
Alphaville 04.11.2024, 12:35
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