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Esiste una nuova disobbedienza civile, la spiritualità

È la strada per appagare le esigenze esistenziali più profonde e per vivere come una conquista la riduzione della dipendenza dal consumismo compulsivo, causa principale della crisi ecologica

  • 9 dicembre 2024, 12:00
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A fisherman rows past the setting sun in Disko Bay, Greenland above the arctic circle Thursday Aug 18, 2005

  • Keystone
Di: Roberto Italo Zanini, giornalista, ha lavorato alla redazione cultura di Avvenire. Si occupa di società e comunicazione religiosa

Che esista un nesso fra la crisi ecologica che stiamo vivendo e i nostri comportamenti sociali e privati sembra ormai una cosa accertata. Forse, però, il motivo per cui non riusciamo a invertire la tendenza non è tutto da imputare alle contingenti volontà o incapacità economiche e politiche internazionali. Esiste, più che altro, una questione culturale, un “habitus” comportamentale che coinvolge ogni individuo legato alla modernità consumista con tutte le sue più recenti declinazioni e aspettative tecnologiche. In maniera provocatoria, potremmo affermare che abbiamo perduto il senso del limite. Parliamo di quella modalità stratificata nei millenni che ci impediva di andare oltre certi equilibri resi vivi ed evidenti da credenze, timori ancestrali, abitudini sociali, legami affettivi, relazionali, religiosi, culturali e, soprattutto, dal rapporto pratico e necessario con la natura e le precarietà quotidiane. Una modalità certamente più attenta al senso intimo delle cose e alle profondità della vita che potremmo agevolmente definire spirituale, nel senso più esteso del termine e quindi non necessariamente religioso.

Non si tratta qui di stabilire quale sia il migliore dei due “habitus”, ma di constatare che nel vestirne uno abbiamo sostanzialmente perduto l’altro. Questo ha certamente a che fare con quel voler andare oltre gli ostacoli che è essenza della mente umana e primaria ispirazione della modernità così come si è evoluta dal mito di Prometeo, passando per l’Ulisse di Omero e quello di Dante, il Frankenstein di Mary Shelley e, per non restare alla letteratura, via dicendo fino a Elon Musk e all’attualissimo mito iper tecnologico ed esclusivo dell’intelligenza artificiale. Le “magnifiche sorti e progressive” tanto criticate da Leopardi (l’habitus della poesia è essenzialmente spirituale) si sono così imposte come una religione salvifica nutrita di ideologia consumista, finendo per eclissare, appunto, ogni senso del limite e tutti gli antichi timori per le possibili conseguenze, nella convinzione che tutte possano essere risolte o aggirate. Vivendo, poi, in contesti essenzialmente artificiali come le nostre città, ci è parso di dover disconoscere (singolarmente e socialmente) anche i limiti relativi alla natura che a tutti dà vita e tutti ci contiene, usando anch’essa alla stregua di una merce, nei modi che tutti conosciamo.

In questo contesto si muove un pamphlet di Maurizio Pallante da poco edito in Italia da Lindau (pagine 130, euro 12), provocatorio a partire dal titolo: Liberi dal pensiero unico. La rivoluzione culturale della spiritualità. L’idea che lo anima è quella consueta di mettere in relazione lo stile consumista con la crisi ecologica mondiale indicando da un punto di vista laico (e qui sta la provocazione) una strada di riappropriazione, in chiave moderna, dell’habitus spirituale rileggendo il concetto di limite come costitutivo per l’essere umano e, si potrebbe dire, per esso umanizzante.

Pallante è il fondatore del “Movimento per la decrescita felice” e il suo ragionamento non può che dipanarsi da una argomentata critica al sistema di sviluppo centrato sul Pil e quindi sulla generazione continua ed espansiva di beni di consumo e di ricchezze. Una critica in parte condivisa da sempre più numerosi economisti e politici che il libro non trascura di citare, così come alcuni passaggi della dottrina sociale di papa Francesco relativi al rapporto uomo-ambiente, e non soltanto dall’enciclica Laudato si’, ma anche, per esempio, dall’esortazione apostolica Laudate Deum, che su questo tema afferma: «Non ci sono cambiamenti duraturi senza cambiamenti culturali, senza una maturazione del modo di vivere e delle convinzioni sociali, non ci sono cambiamenti culturali senza cambiamenti nelle persone». Così, per Pallante non esiste critica ambientalista se non si traduce in uno stile di vita personale lontano da logiche consumiste e attento agli sprechi. In questa logica, la politica dovrebbe finalmente comprendere la semplicissima e forse per questo disattesa affermazione di Robert Kennedy che nel celebre discorso all’Università del Kansas, il 18 marzo 1968, cioè in tempi non sospetti, constatava che «il Pil misura tutto, ma non ciò che rende la vita degna di essere vissuta». In quegli anni, uno studioso poliedrico come Kenneth Building, teorico dell’economia evolutiva, con un ficcante aforisma inchiodava alle sue responsabilità un’intera classe di colleghi: «Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un pazzo, oppure un economista».

Insomma, succede un po’ come nella fiaba di Andersen I vestiti nuovi dell’imperatore: è evidente che il re sia nudo, ma noi come il sovrano continuiamo a pavoneggiarci nei nostri abiti inesistenti. Per Pallante questo nostro atteggiamento è figlio dell’ideologia consumista. Siamo incastrati in un meccanismo domanda offerta così ben architettato che l’offerta anticipa la domanda suscitando sempre nuovi bisogni, che ci appaiono così reali da doverli soddisfare in una sequenza causa-effetto che ci rende, ciascuno a suo modo, complici e artefici all’infinito e, necessariamente, mai pienamente soddisfatti.

È tempo, insomma, di recuperare l’idea originaria e autentica di libertà che in ogni epoca ha contraddistinto l’uomo moderno: spirito critico, autonomia di pensiero e capacità di vivere la propria umanità nella pienezza di razionale e spirituale. Un’ideale che chiede la fine delle ipocrisie istituzionalizzate, facendo dialogare lo stile virtuoso del singolo con quello della società in cui vive e della politica che la governa. Difficile? Certamente difficile. Ma, considerando la crisi alla quale ci sta esponendo l’habitus di cui ci siamo vestiti, risulta sempre più evidente che ben-essere non è sinonimo di tanto-avere, come spiegava Erich Fromm ormai cinquant’anni fa. È forse il momento di dare consistenza a quei tentativi di risveglio spirituale, di attenzione alle relazioni e al senso ultimo delle cose e della vita che stanno qua e là prendendo corpo come desiderio e aspirazione di singoli individui nelle nostre società? La domanda è d’obbligo. E anche Pallante chiude il ragionamento chiedendosi se avesse ragione Simone Weil, che nella tragedia della seconda guerra mondiale constatava che il progresso non può venire dell’accumulo di conoscenze scientifiche, né dalla progressiva generazione (dimostratasi fallimentare) del perfetto da ciò che per natura è imperfetto, concludendo che «possiamo essere resi migliori solo dall’influenza su di noi di ciò che è migliore di noi».

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