Filosofia e Religioni

Il segno vero dell’ateismo

Sofferenza, liberazione o mancanza? Cosa c’è oltre la “morte di Dio”

  • Oggi, 14:00
matin-dans-les-monts-des-geants-caspar-david-friedrich-reproductions-de-tableaux-a-la-peinture-lhuile-166.jpg

Caspar David Friedrich, Mattino sui Monti dei Giganti (1811)

Di: Mattia Mantovani 

C’è una specie di mal francioso intellettuale che torna con una ciclicità quasi perfetta e il cui sintomo più evidente pare rappresentato da un nichilismo snob e festaiolo, che trasforma l’assoluto in relativo e viceversa. In questo scorcio iniziale del nuovo millennio, che non invita certo a nutrire soverchie speranze nelle “magnifiche sorti e progressive”, è la volta di Michel Onfray – pensatore rigoroso, per il resto, e soprattutto non privo di spunti di grande interesse – e delle sue argomentazioni a sostegno dell’ateismo, contenute soprattutto nel celebre Trattato di ateologia, uscito nel 2005.

L’ateismo sostenuto da Onfray – che comunque ha ribadito in più occasioni il proprio rispetto per i credenti – è senza dubbio molto glamour e attraente, soprattutto perché è poco impegnativo e smercia l’assenza di Dio come una sorta di prodotto da banco. Ha scritto lo stesso Onfray in un passo particolarmente rivelatore: «Dio non è né morto né moribondo, perché non è mortale. Una finzione non muore, un’illusione non trapassa mai, un racconto per bambini non si confuta. L’ultimo Dio sparirà con l’ultimo uomo. E con lui spariranno il timore, la paura, l’angoscia, tutte macchine per creare divinità, il terrore di fronte al nulla, l’incapacità di considerare la morte come un processo naturale, inevitabile, col quale è necessario venire a patti, davanti al quale solo l’intelligenza può essere efficace. La morte di Dio presuppone l’addomesticamento del nulla».

Belle parole, non c’è che dire, perfino coraggiose. Il problema è che un ateismo del genere è semplicemente inaccettabile, perché è l’esatto contrario e perfino la parodia dell’ateismo autentico, che proclama l’assenza di Dio ma nello stesso tempo soffre di questa assenza, come ha magnificamente dimostrato Dostoevskij nella “Leggenda del Grande Inquisitore” contenuta ne I Fratelli Karamazov. Ma forse, per capire veramente cosa significa essere atei, bisogna leggere uno dei grandi capolavori della letteratura scandinava dell’Ottocento, il romanzo Niels Lyhne, uscito nel 1880.

Il suo autore, il danese Jens Peter Jacobsen, era nato nel 1847 e morì pochi anni dopo la pubblicazione del romanzo, per la precisione nel 1885, a soli 38 anni, stroncato dalla tisi. Botanico e naturalista, spirito profondamente positivo, traduttore in danese delle opere di Darwin ma anche letterato di finissima, vibratile e quasi morbosa sensibilità, Jacobsen ha lasciato un’opera letteraria che oltre a Niels Lyhne comprende un altro romanzo, Marie Grubbe, del 1876, un’ampia produzione lirica e un gruppo di straordinari racconti, tra i quali spicca l’apocalittico La peste a Bergamo.

L’ateismo di Jacobsen deve molto a Nietzsche, perché esprime la necessità di una vita completamente risolta in se stessa, senza bisogno di alcuna forma di trascendenza. Però Jacobsen – e qui sta tutta la sua attualità, si vorrebbe dire la sua urgenza – vive l’ateismo e la “morte di Dio” non già come un superamento dei valori della tradizione, ma come un ulteriore segno della crisi di quegli stessi valori. Ecco perché Niels Lyhne, nel momento estremo, avverte la mancanza della fede come una liberazione, ma anche e soprattutto come un limite: «Avrebbe fatto così bene avere un Dio al quale indirizzare lamenti e preghiere. E infine morì la sua morte, la difficile morte».

Circa un ventennio dopo, nelle prime pagine dei Quaderni di Malte, un altro scrittore sostanzialmente ateo come Rainer Maria Rilke prenderà spunto proprio da queste parole per descrivere l’impossibilità di una morte individuale in una società secolarizzata e in un mondo senza Dio: all’“Hôtel-Dieu” di Parigi, il più antico nosocomio della capitale francese, «oggi si muore in 559 letti, naturalmente in serie. Di fronte a una produzione così imponente la morte singola non viene confezionata con particolare cura, ma d’altronde poco importa. È il numero a dominare».

L’ateismo di Jacobsen assume addirittura i tratti della disperazione nel già ricordato racconto La peste a Bergamo, pubblicato nel 1881. L’epidemia che colpisce la città lombarda, mietendo numerose vittime, fornisce a Jacobsen lo spunto per riflettere sul significato della redenzione, con una singolarissima rilettura della vicenda del Golgota ad opera di un predicatore che ne fornisce una terribile variazione, dicendo che Gesù, disgustato dalle bassezze degli esseri umani, è sceso dalla croce ed è scomparso: «E allora balzò a terra, e trasse a sé la sua veste con impeto tale che i dadi dei soldati rotolarono giù per il Golgota, e la gettò sopra le spalle nella sua ira regale, e s’alzò al cielo e scomparve. E la croce restò vuota, e la grande opera della redenzione restò incompiuta. E ora non c’è più nessun intermediario tra Dio e noi».

Sono parole non dissimili da quelle del sulfureo Discorso del Cristo morto di Jean Paul, pseudonimo letterario di Johann Paul Richter, grande scrittore tedesco dei primi decenni dell’Ottocento: «Ho attraversato i mondi, sono salito fino ai soli e ho percorso a volo i deserti del cielo, ma non c’è Dio alcuno. Ho scrutato nell’abisso gridando: “Dove sei tu, Padre?”. Ma ho udito solamente l’eterna tempesta che nessuno governa. L’eternità si stendeva sopra il caos e lo erodeva e ruminava se stessa».

“Se Dio non esiste, tutto è permesso”, diceva Dostoevskij: la “morte di Dio”, proclamata con giubilo da Nietzsche e vissuta con timore e tremore proprio da Dostoevskij, ha trovato e trova tuttora in Jacobsen uno dei più lucidi e insuperati interpreti. Il suo ateismo, come ogni autentico ateismo, esprime non già una liberazione ma il senso più profondo di una mancanza. I suoi romanzi e i suoi racconti nascono da questa atroce e drammatica consapevolezza e la esprimono nel più alto linguaggio della creazione poetica. È precisamente quanto manca ad Onfray e a tutti coloro (i cosiddetti “ateodevoti”) che sbandierano l’ateismo come una liberazione. Agli “ateodevoti” e ai loro seguaci si può forse consigliare la rilettura (o la lettura) di un romanzo come Madame Bovary, nel quale l’ateo Flaubert ha smascherato la volgarissima spocchia antireligiosa – espressione di una più ampia bêtise – nel personaggio del farmacista Homais, ottusamente fiducioso nello scientismo e nel positif du monde.

Come dice Evgenij Sergeevič Dorn, medico annoiato e blasé, nel quarto atto de Il gabbiano di Anton Cechov, rivolgendosi al vecchio possidente Sorin: «Paura della morte, paura animale. Bisogna reprimerla. Teme consapevolmente la morte soltanto chi crede nella vita eterna e ha paura dei propri peccati. Ma lei, in primo luogo, è un miscredente, e poi quali sono i suoi peccati?». Se infatti viene a mancare l’idea del peccato, o comunque l’idea di una remissione e redenzione, viene conseguentemente a cadere il mistero e il significato dell’evento salvifico della croce. L’agnostico August Strindberg ha svolto un simile tema in un testo teatrale del 1900 intitolato Pasqua, operando una variazione in senso laico e terreno della formula teologica della satisfactio vicaria: la protagonista, Eleonora, mistica e visionaria, entra in rapporto con l’umanità intera, realizza il Cristo nell’uomo e patisce per tutti, ma in questo modo rende superfluo il Verbo che si fa carne e l’elemento trascendente.

Una decisa quanto trepida negazione è inoltre contenuta nel celebre dialogo tra il Cavaliere e la Morte ne Il settimo sigillo di Ingmar Bergman. Il Cavaliere si lamenta del fatto che «Dio continua a vivere in me in questo modo doloroso e umiliante», sostiene che «abbiamo bisogno di crearci un’immagine delle nostre paure e a quell’immagine diamo il nome di Dio», afferma di «chiamarlo nelle tenebre, ma a volte è come se non esistesse». Al che, la Morte si limita laconicamente ad osservare: «Forse non esiste…».

I due estremi, la fede come paradosso e scandalo del credo quia absurdum e l’ateismo come concezione del mondo realistica ma limitante, trovano forse il punto di massima contiguità nell’opera di un altro grande scrittore scandinavo, lo svedese Pär Lagerkvist, Premio Nobel nel 1951, che si definiva «un credente senza fede e un ateo religioso». Nel romanzo Barabba, del 1950, Lagerkvist ne ha fornito una dimostrazione davvero esemplare. Barabba evita la condanna capitale perché l’umanità deve essere riscattata dalla morte di Gesù, ma in questo modo reca la morte dentro di sé e forse non trova una risposta nemmeno nell’ora estrema.

È una consapevolezza abissale che percorre tutta l’opera di Lagerkvist e trova espressione versi conclusivi di una poesia scritta negli ultimi anni di vita, dove la fede e l’ateismo sembrano conciliarsi in una possente e screziata immagine dell’insensatezza e insieme della speranza quali cifre più autentiche di quella misera cosa che rimane la condizione umana, comunque la si consideri:

Se credi in dio e nessun dio esiste
allora la tua fede è un prodigio ancor
più grande.
Allora è proprio qualcosa
d’incomprensibilmente grande.
Perché un essere sta al fondo delle tenebre
a invocare
qualcosa che non esiste?
Perché accade?
Non c’è nessuno ad ascoltare chi invoca
nelle tenebre.
Ma perché mai c’è il grido?

Pär Lagerkvist

Quando Dostoevskij scriveva che se Dio non esiste, tutto è permesso, era perfettamente consapevole della gravità di una simile affermazione, così come Nietzsche, proclamando la “morte di Dio”, era del tutto consapevole della gravità delle proprie parole. Oggi, al contrario, si assiste al diffondersi di un ateismo allegro e ridanciano, che si presenta come un nuovo assolutismo e soprattutto non ha niente di laico, perché la vera laicità – uno degli imprescindibili prodotti dell’illuminismo e insieme uno dei fondamenti non negoziabili della convivenza civile – non è quella che nega il mistero e se ne fa beffe, ma quella che lo riconosce come tale, non lo condivide ma lo rispetta.

Nel grande bazar postmoderno, l’assenza di Dio sembra invece aver perduto ogni forma di tragicità e coincide sempre più con un superficiale e sguaiato menefreghismo, che ha lo sgradevole e penetrante sentore dello sbrago collettivo. Il vero ateismo è un altro: è una vita senza Dio che merita di essere vissuta e apprezzata, laicamente e responsabilmente, in un continuo e certo difficilissimo confronto con la sensazione di nulla e di vuoto.

«L’eterno silenzio di questi spazi infiniti mi atterrisce», diceva del resto un grande credente come Blaise Pascal, ad indicare laicamente – perché la laicità è anzitutto un modo di argomentare – che non si dà fede senza il dubbio, l’incertezza, i momenti di vuoto dell’anima, le “buie ore dell’angoscia”, come le definiva l’ateo Jacobsen, quando tutto sembra scolorare in un’opaca insignificanza. Anche un ateismo privo di dubbi, incertezze e vuoti dell’anima non è più ateismo: è il relativo che fa di se stesso un assoluto, una fede posticcia che si illude di risolvere il problema evitando di affrontarlo. Sono gli uomini forti che hanno il coraggio di piangere, temere e tremare, mentre i deboli si limitano a raccontare menzogne per credersi forti. L’eterno silenzio degli spazi infiniti atterrisce tutti: per quanto non si sappia se c’è qualcuno ad ascoltarlo, il “grido” del verso finale della poesia di Lagerkvist esprime un’esigenza ancestrale e ineludibile.

Ti potrebbe interessare