La storia della letteratura italiana è colma di testi in forma di preghiera, a partire dal Cantico delle creature di san Francesco. Tuttavia, le poesie in forma di preghiera non sono mai state definite un genere letterario a sé stante e, in Italia, sono rimaste ai margini degli studi letterari. Chiese in Diretta ne parla con la professoressa Erminia Ardissino (qui alcuni stralci dell’intervista), docente di Letteratura italiana all’università di Torino, che per Carocci ha pubblicato un corposo volume che indaga le poesie in forma di preghiera attraverso i secoli, da quel primo testo di san Francesco, a Ungaretti, Caproni e Alda Merini. S’intitola Poesia in forma di preghiera. Svelamenti dell’essere da Francesco d’Assisi ad Alda Merini.
Professoressa, poesia e preghiera non sono evidentemente la medesima cosa. Eppure, i due universi nel corso dei secoli si sono spesso avvicinati?
Parto dalla considerazione della tensione che si crea fra scrivere poesie e scrivere preghiere. Poesia e preghiera hanno alcune affinità. Per esempio, si indirizzano a degli uditori: a Dio che esiste, che è in ascolto e non è in ascolto, non si sa bene… e a un lettore della poesia, nonostnate non si sappia se la poesia verrà mai letta o ascoltata. A me ciò che interessa principalmente è la tensione che si crea nello scrivere poesia in forma di preghiera. Perché la preghiera ha delle regole: non ci si può rivolgere a Dio in qualsiasi maniera. C’è una religione. Religione deriva da religo, in quanto ci sono delle regole da rispettare. La poesia ha le sue regole che sono determinate dalla necessità di una metrica, di una musicalità… Chi fa poesia in forma di preghiera è sottomesso a questa tensione tra due cose che hanno delle loro leggi, a volte anche non simili. Il libro si declina nel vedere come, ad esempio il santo di Assisi, per fare una poesia come il Cantico si sottoponga a delle regole che lui deriva dalla letteratura e dalla poesia francese con cui era familiare.
Carta bianca - Padre Giovanni Pozzi
RSI Cultura 31.03.1988, 15:12
Eppure, nonostante questa reciproca interdipendenza, la poesia che si fa preghiera e la preghiera che si fa poesia non sono state mai considerate, almeno in Italia, un genere letterario a sé stante. E questo nonostante il fatto che gli esempi siano numerosissimi attraversino i secoli, arrivando, come vedremo, anche ai giorni nostri. Si può ravvedere il motivo di questo mancato riconoscimento nel fatto che l’universo religioso e quello laico non sempre abbiano saputo dialogare insieme?
Sì, è proprio così. Forse addirittura si può dire che la storia letteraria ha preso più in considerazione l’aspetto religioso di quanto non abbia fatto la teologia o non abbiano fatto gli studi specifici in materia religiosa. È uscita recentemente una enciclopedia della preghiera, ad esempio, che non tiene in alcun conto dell’aspetto letterario…
Il suo lavoro procede cronologicamente dal Cantico delle Creature di san Francesco, da cui i critici fanno iniziare abbastanza concordemente la storia della letteratura italiana fino ai giorni nostri con due eccezioni. Una al capitolo dedicato alle donne: non è stato possibile raccontare negli altri capitoli la storia o il ruolo che le donne hanno avuto in questo processo o è sempre ancora necessario, quando si parla di donne, aprire parentesi speciali per mostrare il loro lavoro?
Ritengo che le donne, soprattutto nella storia letteraria italiana, siano molto trascurate. Le donne non sono mai state fortunate perché per diverso tempo non hanno avuto accesso alla cultura. Producevano testi che non riuscivano a pubblicare. Molto spesso erano le suore a essere le donne più colte… I loro scritti erano di devozione... Un capitolo sulle donne, la preghiera delle donne, era estremamente necessario. Il mio è molto povero rispetto alla ricchezza esistente. È vero che se confrontiamo la produzione di Dante, di Petrarca etc. rispetto alla produzione delle donne non arriviamo a queste punte di eccellenza, però è un fenomeno estremamente interessante.
Il Ticino di Eugenio Montale
RSI Cultura 28.04.1967, 09:00
Arriviamo alle poesie in forma di preghiera dei giorni nostri, o meglio del secolo scorso. Per esemplificare, lei ha scelto una rosa di quattro poeti.
Di fronte al Novecento mi sono trovata in una certa difficoltà perché, limitandoci anche solo alla letteratura italiana, abbiamo una quantità di nomi di poeti che hanno scritto in forma di poesia, da Clemente Rebora a Mario Luzi a Betocchi. Sono tantissimi e si confrontano con un problema grosso che è quello della filosofia nella contemporaneità, una filosofia che molto spesso nega la trascendenza e quindi i valori che una preghiera porta con sé. Per il Novecento ho fotografato quattro autori: Ungaretti, Caproni, Giudici e Alda Merini. Ungaretti ha addirittura dei componimenti col titolo preghiera. Caproni è stato il mio punto di partenza perché lui scrive delle preghiere vere e proprie nella forma della litania per la città di Genova: sono una lode della città di Genova… Ho poi considerato Giovanni Giudici, perché è un poeta molto legato all’esperienza biografica. La sua biografia ha anche dei capitoli dedicati al collegio, al rapporto con gli educatori religiosi. Per tutta la vita ha condotto un confronto col problema religioso. E ho quindi chiuso con Alda Merini. Non si poteva far diversamente perché la sua scrittura è ricca di una riflessione religiosa sulle figure di Gesù, di Maria e quindi anche di preghiere.