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Resistenza e intransigenza, la strada di Turoldo

Prete, poeta, teologo, filosofo ed ex partigiano lungamente avversato da buona parte della gerarchia ecclesiastica, è stato coscienza critica e profetica nell’Italia del secondo ‘900

  • Ieri, 14:00
  • Ieri, 14:31
David Maria Turoldo
Di: Roberto Italo Zanini, giornalista, ha lavorato alla redazione cultura di Avvenire. Si occupa di società e comunicazione religiosa

Resistenza e intransigenza. Poche altre parole come queste possono essere considerate interpreti autentiche del Novecento, nel bene e nel male. Poche le persone che, praticandole insieme, in coerenza, le hanno coniugate con l’amore: nella vita, nella testimonianza di fede e, persino, nell’essenzialità profetica della poesia. Stiamo parlando di David Maria Turoldo, il prete, poeta, teologo, filosofo ed ex partigiano lungamente avversato da buona parte della gerarchia ecclesiastica, nato a Coderno in Friuli nel 1916 e morto a Milano, dopo una lunga malattia, il 6 febbraio del 1992. Una vita intrisa nella fede, spesa in favore dei fragili, in difesa della libertà e della dignità umana, a ogni costo. Temi che innervano la sua poesia, amata dal pubblico, apprezzata da Ungaretti, Luzi e Pasolini e da letterati come Carlo Bo, Geno Pampaloni, Andrea Zanzotto. Coscienza critica e profetica nell’Italia del secondo ‘900, anticipatore del Concilio e convinto della necessità di dover guardare alle questioni sociali e religiose col sentimento del Vangelo, considerando che «Dio non è né vecchio né antico, né moderno, Dio è sempre contemporaneo».

Per tutto questo e non solo, venne a lungo considerato un prete scomodo, per qualcuno persino eretico, al punto di essere costretto per ben due volte ad allontanarsi dall’Italia. «Il fondamento del potere è la forza – annotava in una potente omelia del 1989 - ma fondamento dell’autorità è l’amore. Non nego l’autorità del padre e della madre. Non nego l’autorità degli insegnanti, non nego l’autorità del presidente, del vescovo e del pontefice, io nego il potere! Ho sempre negato il potere, tutta la mia vita. La dignità di un uomo, cioè la sua autorità. non è nel suo potere di dire “comando io”, la sua autorità è fondata sulla capacità di amare».

Resistenza, quindi, di fronte a ogni atto di forza e di prevaricazione, che venga dalla politica, come dalla società o dalla Chiesa; intransigenza nel fare dell’amore cristiano uno stile di vita, una forma poetica. Perché in lui non c’era distinzione fra il dire, il fare e lo scrivere, coerente fino alla consegna totale di se stesso al Cristo dei Vangeli, senza più intermediari, nella pura logica della mistica, fatta di amore concreto per Dio e per l’uomo, indistintamente. Un percorso che fotografa in questa lirica, a pochi giorni dalla morte:

Poeta: uomo di tutti
cantore di tutte le disperazioni e speranze;
di tutte le solitudini: uomo di ogni dolore
e d’ogni gioia nascosta
nel cuore delle cose.
/.../ Poeta: cantore di ciò che non ha parola.
Poeta: uomo che alla fine non riuscirà
neppure a credere al suo canto.
Uomo che varca il limite e annulla i confini,
e si cala nel “regno delle madri”,
nel regno delle essenze, e ascolta: e poi
si perde, e di lui non rimane che la voce

Una personalità complessa, quella di Turoldo, dalle tante possibili chiavi di lettura. Considerarla nella sua interezza, non è facile. Lo si comprende leggendo l’ultimo volume a lui dedicato da Mario Lancisi, giornalista che ha all’attivo, fra l’altro, alcuni testi su Lorenzo Milani. La sua vita, così densa di scritti, di luoghi, di amicizie e di iniziative, compiuta da ribelle sulla breccia della storia, alla ricerca del segno di Dio in ogni essere umano, non si può comprimere in un libro, soprattutto se si sceglie di non seguire semplicemente il dato anagrafico. Il rischio di perdersi negli stereotipi, nelle letture ideologiche, nell’apologetica o persino nell’agiografia, è sempre dietro l’angolo. Nell’incedere apparentemente disordinato di questo David Maria Turoldo. Voce di un poeta ribelle (Edizioni Terra Santa, pagine 370, euro 29) che miscela il racconto, i testi poetici, le omelie e la cronaca a un incalzante succedersi di testimonianze in presa diretta, Lancisi è riuscito nell’operazione più necessaria: leggere la complessità di Turoldo attraverso la passione per Dio e per l’umanità (l’una legata all’altra), mostrando, forse al di là di ogni intento, quell’amore incondizionato e libero che, come si diceva all’inizio, coniuga in lui la resistenza a ciò che allontana dalla libertà e dalla verità, all’intransigenza nel volerle vivere e testimoniare nella bellezza, contro ogni avversità e ogni evidenza.

In questo Giuseppe Turoldo, diventato David Maria col suo ingresso nell’Ordine dei Serviti, è davvero poeta e ribelle, come ogni profeta degno di tal nome. La sua fede, affidata all’azione dello Spirito, gli fa intuire da subito che non si può essere cristiani senza accompagnare gli uomini, in ogni istante, a comprendere il senso della loro umanità e i rischi connessi a stili e abitudini che finiscono per negarla. Lo fa per amore, ma anche sapendo di doverlo fare. A volte, forse, desiderando di passare la mano per non patirne le conseguenze. Non a caso, sente la vicinanza con Giona, il ribelle della Bibbia, e ne vive la sua stessa fragilità:

Tu Giona, piccolo profeta,
fratello mio e amico
di sventura, Giona...

Questa consapevolezza lo spinge alla preghiera incessante, alla maniera dei Salmi, che studia tutta la vita, traduce (anche in collaborazione con l’amico Gianfranco Ravasi), ripropone e imita nella loro vicinanza all’essere umano e ai suoi limiti. E la sua poesia, come nei Salmi, diventa necessaria e vitale invocazione:

Manda ancora profeti
a rompere le nuove catene
in questo infinito Egitto del mondo
… Uomini certi di Dio,
uomini dal cuore in fiamme

Carlo Bo sosteneva che Turoldo avesse «avuto da Dio due doni: la fede e la poesia. E dandogli la fede Dio gli ha imposto di cantarla tutti i giorni. In quarant’anni che lo conosco e lo leggo ho sempre visto rispettato questo patto, che fa di David un’eccezione nella famiglia dei poeti, un unicum». È così che la passione per l’uomo in Turoldo diventa vita concreta e missione, invettiva, lirica, condivisione, amicizia e chiave di lettura dei testi biblici.

Su questa strada, lui che era nono di dieci figli, viene avviato dalla dignitosa povertà del suo paese natale e della sua famiglia. Da queste sue radici impara la solidarietà del “camminare insieme”, che da giovane sacerdote a Milano lo conduce, per dirla ancora con Carlo Bo, a impegnarsi per «fare della Resistenza un momento di comunione e di carità». David Maria, schermendosi, diceva di essere un uomo di poche letture perché «il libro che più mi ispira è il volto umano», poi confessava la sua passione «per i personaggi di Dostoewskji che mi popolano come parenti: quei personaggi peccatori e insieme innocenti». Quindi, restando sempre in clima letterario, indicava nel Don Chisciotte «un libro che può dirla lunga sul mio conto».

Un uomo a tutto tondo, quindi. Nel libro di Lancisi è interessante scoprirlo soprattutto attraverso le testimonianze di chi lo ha conosciuto, degli amici e dei tanti che frequentavano la comunità di Sant’Egidio in Fontanella, frazione di Sotto il Monte, dove visse per quasi trent’anni. Persone attratte dal suo carisma di testimone e di sacerdote senza infingimenti e senza fronzoli. Ed è interessante notare che alcune delle testimonianze più sentite vengano proprio dall’interno di quella gerarchia ecclesiastica che lo aveva tanto maltrattato. Da una parte il cardinale Ravasi che non nasconde la nostalgia per l’amico e sottolinea che «nei nostri giorni così superficiali, chiusi e persino ottusi sarebbe ancor più necessaria la voce di Turoldo, che inquietava la pigra pace delle coscienze». Dall’altra non si può non ricordare Carlo Maria Martini, che a fine ‘91, per la consegna del premio Lazzati, all’Università cattolica di Milano, riconosce a Turoldo il dono della profezia: «Tu sei superiore a questi riconoscimenti, sei del tutto al di là, non hai bisogno di queste onorificenze. Per noi però è importante attestarti la gratitudine per l’onestà e la convinzione della tua arte. E oltre l’apprezzamento per ciò che sei, vogliamo fare atto di riparazione, vogliamo evitare di edificare soltanto sepolcri ai profeti, e dirti che se in passato non c’è sempre stato riconoscimento per la tua opera è perché abbiamo sbagliato». Viene in mente un passaggio della prefazione di Ungaretti a un suo libro del 1952: «La poesia di David Turoldo scaturisce da maceramento per l’assenza-presenza dell’Eterno, presenza in tortura di desiderio, assenza perché dall’Eterno ci separa l’effimero nostro stato terreno, al quale tiene tanto la nostra stoltezza».

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