Nella sua costante analisi della modernità materialista che distoglie l’essere umano dalla sua essenzialità spirituale, Pirandello mette in scena, in Uno, nessuno, centomila, un singolare personaggio: benestante e particolarmente consapevole di se stesso, entra in crisi per una banalissima critica estetica rivoltagli dalla sua bella moglie. Quell’aspetto di sé, che mai aveva considerato, piano piano mette in discussione l’uomo che credeva di essere. Arriva al punto di pensare che ogni persona abbia di lui una diversa opinione, attribuendogli quindi una diversa personalità. Non è uno, ma centomila. Tutte le sue certezze crollano in una crisi identitaria ed esistenziale fino a maturare l’idea di diventare un perfetto signor nessuno. Senza denaro e senza vincoli, né ambizioni, né desideri, quasi annullandosi in una immateriale concezione di se stesso.
Al personaggio pirandelliano, una sorta di “okikomori” ante litteram, sembra di poter risolvere i problemi della sua umanità corrottubile e dolorante attraverso il rifugio in una perfezione definibile come spirituale, che ritiene di poter fare a meno della fisicità materica e della sua sostanziale debolezza e ingovernabilità. Un primato dello spirituale raziocinante su tutto ciò che è “corpo”, che ricorda molto quel che si nasconde dietro le attuali mitologie sull’intelligenza artificiale e la sua incorporea infallibilità. Un’idea resa possibile dal dualismo degli opposti che segna la nostra vita senza ormai che se ne abbia coscienza: spirito e corpo, sentimento e razionalità, fede e scienza, religione e laicità, bene e male. Un dualismo sublimato dal concetto moderno che il pensiero sia chiamato a riscattare e superare tutti i vincoli legati alla corporeità. La singolare e paradossale conseguenza, troppo poco indagata, è che l’essere umano così impostato finisce per vivere da scisso, da diviso in se stesso. Come il personaggio pirandelliano, che abbandona il corpo per trincerarsi in una specie di narcisismo spirituale, viviamo la nostra complessità in una modalità semplificata e banalizzante da separati in casa: da una parte il corpo e i suoi bisogni, dall’altra un sentimentalismo simil-spirituale ed edonista che usa il corpo, i corpi degli altri e tutta la materia-natura alla quale può accedere, per soddisfare se stesso.
Così manipolati dall’intelletto, i corpi, pur apparentemente esaltati, sembrano vivere una progressiva e alienante declassificazione a meri strumenti, ad abiti da indossare secondo i gusti e le stagioni. L’idea che invece la nostra umanità sia nell’indistinta contemporaneità di spirito e corpo, vissuta nella sua piena e totale indistinzione e che sia questo a renderci davvero unici e diversi l’uno dall’altro, nemmeno sfiora le nostre esistenze relegandole a una parzialità che le rende, potremmo dire, necessariamente insoddisfatte. Fra i pochi pensatori dei nostri giorni sensibili a questa tematica, Antonella Lumini riesce a farla emergere in ogni suo lavoro. Non fa eccezione l’ultimo libro Mistica e coscienza. Vedere dentro edito in Italia da Paoline (pagine 292, euro 22), che nel portare al centro l’attenzione per l’interiorità dell’essere umano rivaluta il percorso spirituale della mistica incarnata, cioè di quella esperienza interiore che costituisce l’accesso attraverso cui il divino si rivela e si incarna in ciascuno secondo la propria umanità, rendendola significativa e degna di essere vissuta nella sua interezza. Perché non c’è spiritualità che non abbia necessità del tramite corporeo per realizzarsi e non c’è corpo che non abbia bisogno di indagine spirituale per dare senso, identità e collocazione alla sua esistenza.
Lumini ha fatto della ricerca spirituale e dello scavo nelle profondità dell’animo umano il fulcro della sua esistenza in un viaggio esistenziale che dalle religioni orientali si è pian piano centrato nei Vangeli e nel senso cristiano della vita, che ha implementato e arricchito in un connubio di solitudine e relazione che si ispira alla vocazione per la meditazione e il silenzio della “pustinia” di tradizione ortodossa. La sua lettura dell’essere umano supera quella platoniana cara alla cultura occidentale, secondo la quale esiste un corpo mortale dominato dalla legge del causa-effetto e un’anima immortale che tende per sua natura a tornare verso la pura luce creatrice. Una visione che, come sottolinea Lumini, relega l’uomo a realizzare se stesso in uno spirituale elitario, che esiste solo fuori dal piano sensibile. Diversa e rivoluzionaria, prosegue Lumini, è invece la mistica proposta dai Vangeli, che collocandosi pienamente all’interno dell’antropologia biblica interpreta la creazione come la manifestazione visibile di quanto ai nostri occhi resta invisibile. Ma questo confine non è definito una volta per sempre, è una soglia variabile in funzione della nostra capacità di scandagliare ciò che è al di fuori di noi attraverso quello che ci anima dentro. Perché così come il divino si manifesta nella creazione è al tempo stesso intimo alle creature. In questo senso, spiega l’autrice, «l’essere umano è la creatura destinata a prendere coscienza» della propria origine divina... «attraverso un processo che richiede al finito di farsi capace dell’infinito, all’amore umano di farsi capace dell’amore che genera e crea».
Un’antropologia che indica una strada di realizzazione molto diversa da quella battuta dal protagonista di Uno,nessuno, centomila. Una strada che chiede la contemporanea valorizzazione di spirituale e corporeo perché l’uomo è nella loro perfetta fusione. L’umano non prevede separazione ma si realizza nell’unità. La scissione o la sopravvalutazione di una parte sull’altra non può che condurre a un uomo imperfetto, non realizzato, carente di un aspetto sostanziale e qualificante della sua natura. Tuttavia, se ciò che è spirituale in noi è filosoficamente “qualificato”, come dicevamo, fin da Platone, non altrettanto si può dire del corpo, che ha patito e patisce, anche nella cristianità, di un certo “discredito”, se così possiamo chiamarlo, che è anche frutto, annota Lumini, di una parziale lettura dei testi di san Paolo. Nei Vangeli, però, il Verbo che si fa carne, per dirla con quello di Giovanni, scioglie definitivamente ogni dubbio. Quel bimbo nella mangiatoia di Betlemme, del quale a Natale festeggiamo il compleanno, è realmente uomo. Ci ricorda che la vita comincia e si realizza nella carne. La sua umanità è così sostanziale da mostrarsi apertamente attraverso le relazioni anche nel Risorto, che si accompagna ai suoi amici e con essi condivide i pasti nella propria conviviale corporeità. Il Dio dei Vangeli che diventa uomo, scrive Lumini, si presenta come esempio di piena umanità non nello spirito e nel corpo, ma nella loro indissolubile, indispensabile, identitaria e qualificante unità.
L’ecumenismo scalda ancora i cuori? - Madeleine Delbrêl, la mistica delle banlieues
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