Letteratura

Il patriota scettico

La vicina lontananza di Gottfried Keller

  • 19 luglio 2023, 00:00
  • 5 settembre 2023, 14:57
Gottfried Keller in un dipinto del 1886 di Karl Stauffer

Gottfried Keller in un dipinto del 1886 di Karl Stauffer

Di: Mattia Mantovani

Non è raro che gli autori siano i peggiori giudici delle proprie opere. Forse è l’empito del genio, che per esprimere la propria grandezza deve temporaneamente tacitare intelletto e ragione (basti pensare al tardo Goethe e all’“Elegia di Marienbad”). E’ una regola alla quale non è sfuggito nemmeno lo zurighese Gottfried Keller, nato il 19 luglio 1819 e morto nel 1890, una delle massime glorie letterarie elvetiche e anzi “lo scrittore” svizzero tedesco per eccellenza, pannello centrale del grande “trittico” realista, se così lo si può definire, completato dall’altro zurighese Conrad Ferdinand Meyer e dal bernese Jeremias Gotthelf.

Nel 1886, quando uscì “Martin Salander”, che si sarebbe poi rivelato il suo ultimo romanzo, il suo testamento spirituale e insieme il suo addio alla letteratura, le reazioni furono apertamente negative, perché dall’autore di un romanzo di compiuta e risolta classicità come “Enrico il Verde” e cicli narrativi come “La gente di Seldwyla” e “Novelle zurighesi” non ci si aspettava un romanzo improntato a un’impietosa critica dei guasti prodotti dal progresso, dal capitalismo e dalla democrazia figlia di quel liberalismo sul quale circa quarant’anni prima aveva preso forma la costituzione dello Stato federale elvetico (il “tempo della grande utopia”, come lo definì in seguito Max Frisch).

Un pessimo giudice, il burbero e scontroso Keller (che in quegli anni, negli ambienti letterari della natia Zurigo, era conosciuto come “il vecchio brontolone”), perché era stato lui stesso a sconfessare il romanzo, dicendo che era troppo didascalico e privo di poesia. Si sbagliava, ovviamente, perché non si era reso conto del carattere profetico dell’opera che aveva creato. “Martin Salander” è stato quindi considerato per interi decenni un’opera poco riuscita e lontanissima dalla restante produzione narrativa e poetica di Keller. In realtà, ne è la perfetta e logica conclusione.

Il romanzo, pubblicato in versione italiana da Dadò, chiude infatti un percorso che si era aperto alcuni decenni prima, quando il giovane Keller, “citoyen” zurighese di idee liberali e deciso sostenitore della nuova costituzione del 1848 (alla quale dedicò poi uno dei suoi racconti più belli, “Il vessillo dei sette impavidi”), aveva esordito nella narrativa con un romanzo di impronta tardo-romantica, il già ricordato “Enrico il Verde”, pubblicato nel 1855 (in italiano nella sempre valida versione di Leonello Vincenti, pubblicata da Einaudi nel 1944 e più volte ristampata), nel quale lo schema del romanzo di formazione veniva declinato nel segno di una sensibilità per molti versi già novecentesca, con forti screziature di dubbio e scetticismo e la diffusa percezione della sostanziale impossibilità, in un contesto sociale sempre più opaco e imperscrutabile, di mettere in pratica la massima goethiana del “muori e diventa”.

Tra i due estremi rappresentati da “Enrico il Verde” (poi ripubblicato nel 1879, in una versione ampiamente rivista) e “Martin Salander” si situano anche cronologicamente i grandi cicli narrativi nei quali Keller ha raccontato il nuovo mondo borghese e liberale (le “Novelle zurighesi”, raccolte in volume nel 1877) e le peculiarità della provincia svizzera come specchio dello spirito del tempo e delle eterne contraddizioni umane (“La gente di Seldwyla”, pubblicato in due volumi tra il 1856 e il 1874).

Le novelle di Keller -che fu anche un sensibilissimo poeta e un discreto pittore di paesaggi- sono disponibili in versione italiana in un prezioso volume pubblicato alcuni anni fa da Adelphi, che ripropone e unisce i due volumi che lo stesso editore aveva dato alle stampe nel lontano 1964. La celebre -e giustamente celebrata- novellistica di Keller, che comprende anche un lungo racconto a cornice intitolato “L’epigramma”, uscito nel 1881, è tutta qui, nelle congeniali versioni di traduttori e studiosi di vaglia come Lavinia Mazzucchetti, Ervino Pocar, Anita Rho e Gianni Ruschena. Claudio Magris, ai tempi giovane germanista e consulente di Einaudi, già salito alla ribalta grazie alla pubblicazione de “Il mito asburgico”, commentò in questo modo la pubblicazione dei due volumi: «Più ancora che nei romanzi, Keller si rivelò artista di prima grandezza nei racconti. Novelle ricche di humour, di invenzione fantastica, di grazia fiabesca e acutezza realistica. In queste novelle, magnificamente tradotte e presentate, palpita la dimensione più alta, più aperta della narrativa tedesca di quegli anni».

Sono parole molto giuste e ovviamente ancora valide, che però mezzo secolo dopo meritano una sostanziale integrazione, soprattutto in considerazione del fatto che nel frattempo si è imposto un modello di vita improntato a un capitalismo aggressivo e disumano, lontanissimo dal liberalismo celebrato dal giovane Keller. Le sue opere narrative restituiscono infatti l’immagine in chiaroscuro di una Svizzera borghese e cittadina che sta attraversando una fase di profondo cambiamento. Le “Novelle zurighesi” e “La gente di Seldwyla” (dove Keller adombra perfino la fine della nazione, strozzata dall’avidità di denaro e da un benessere prodotto non già dal lavoro, ma dalla speculazione) colgono l’inizio di questo processo e ne evidenziano tutti i pericoli, tracciando il solco nel quale si situerà poi “Martin Salander”. E’ quindi innegabile: i dubbi che il liberale Keller esprime nelle sue novelle e nel suo secondo e ultimo romanzo sono più che mai i nostri.

I suoi detrattori (cosa diceva Goethe? «Non c’è eroe per il servo…») lo accusarono di essere un passatista, incapace di cogliere il nuovo spirito del tempo e le “magnifiche sorti e progressive”. Oggi abbiamo tutti gli strumenti per capire quanto sia vero l’esatto contrario e quanto sia invece pertinente, nonché amaramente profetica, la sua idea del progresso, che in uno splendido passo di “Martin Salander” viene paragonato a un insetto che si muove sulla superficie di un tavolo: «Infine, arrivato al bordo, non può far altro che cadere per terra o al massimo girare in tondo, a meno che non preferisca ritornare sui propri passi arrivando nuovamente al bordo, ma dalla parte opposta». Classico e modernissimo, il patriota scettico Gottfried Keller. Leggerlo o rileggerlo oggi, oltre che un piacere, è quasi un dovere.

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