È innegabile: per la nuova Sirenetta Disney c’era hype. E c’era perché era stato creato ad hoc. Che la sirenetta sarebbe stata nera è stato annunciato diversi anni fa, colpendo sul vivo il razzismo consapevole e quello inconsapevole dentro a fin troppe persone. Il marketing si è appropriato dell’effetto cassa di risonanza che hanno sui social le polemiche, questa volta quelle a fin di bene. Le donne, e in particolare le donne nere, sono incredibilmente sottorappresentate nel cinema. Sul tema rimandiamo a un fumetto di Mirion Malle che riporta in modo spassoso dati interessanti a riguardo, raccolti dal Geena Davis Institute.
Appurato ciò, e cioè che la Disney ha trovato il modo di usare l’ipersensibilità dei reazionari contro di loro e a favore del film, ora che è uscito c’è molto altro da dire.
La prima cosa è tentare di rispondere alla domanda che si sta facendo chi ancora non l’ha visto: ne vale la pena? Com’è il film?
È fedelissimo al cartone, del quale non è una reinterpretazione. È la stessa identica trama, con le stesse identiche canzoni (salvo un paio di nuovi non indimenticabili inediti), e perfino le stesse identiche soluzioni sceniche, solo che realizzate con attori veri anziché disegni animati. Le differenze sono così poche che vale la pena riassumerle qui.
La prima è quella che ci avevano anticipato: la rappresentazione. La prima sirena che compare nel film è asiatica, la seconda ha splendidi capelli afro che si sparpagliano nell’acqua a mo’ di corona. Tanto per triggerare i detrattori di un film che ancora non avevano visto, ma che già gridavano sui social o dai giornali: non esistono le sirene nere! Fortunatamente qualcuno si è ricordato di dir loro che, in effetti, non esistono le sirene. A differenza del razzismo, a quanto pare.
Altre differenze notevoli col cartone che ha segnato l’infanzia di molti: Flounder, Scuttle, Sebastian. I character designer stavolta sembrano aver avuto qualche problema, tant’è che la versione emaciata, pallida e quasi spettrale di Flounder è presto diventata un meme.
Anche questo fa gioco al marketing del film, tuttavia. Sfruttare i social come cassa di risonanza non è una novità nel cinema degli ultimi anni, si pensi a The Boys e a Mercoledì. I meme sono parte della narrazione. Flounder non è l’unico a risultare inquietante: il granchio Sebastian è inspiegabilmente cubico. E Scuttle è l’unico gabbiano più spaventoso degli enormi gabbiani di città, quelli che mangiano la spazzatura, insomma.
Ma questi sono dettagli. Come si diceva, la trama è identica. Qualche differenza c’è, per esempio delle atmosfere leggermente più per adulti rispetto alla rappresentazione del mare. Quello della nuova Sirenetta è un oceano un po’ più dark, soprattutto quando ci si avvicina alle profondità in cui vive Ursula. C’è lo scheletro-lisca di una sirena (o di un tritone?, nella morte genere e colore della pelle non rilevano). La scena dell’incantesimo prevede l’uso di un’inedita squama insanguinata. E fino a qui tutto bene.
Tuttavia, per tutta la visione del film si ha l’impressione che non si sia voluto osare, riproducendo la brutta copia del cartone, benché meno bianco-centrica (il che resta quantomeno un merito).
È il finale che dà la chiave di lettura. Anche perché propone una piccola variazione. Re Tritone si sacrifica per Ariel, dopo aver passato il film a lottare per imporle la sua chiusura mentale legata al concetto di confine e di rifiuto del diverso. Tritone nel film muore. E risorge. Ricorda qualcuno? Per rendere il déja-vu un po’ più chiaro, la sirenetta gli dice esplicitamente: «Hai dato la vita per me». C’è perfino un momento iconograficamente riconoscibile, il re del mare con le braccia bloccate a “T” dalle due murene di Ursula, il viso sofferente, la corona che ricorda la più nota corona di spine. Nel cartone Re Tritone diventava - non diversamente dal resto della popolazione sirenica - una piccola alga, anche piuttosto buffa. La svolta drammatica del film non è fine a se stessa: è, di fatto, legata alla religione cristiana. Lo è quasi di più della versione di Andersen, e senza avere le necessità storiche per esserlo.
Re Tritone trasformato in un’alga mesta nel finale de "La Sirenetta" (1989)
Può essere utile a questo punto un piccolo
excursus legato al simbolo della sirena, uno dei più antichi e potenti che grazie a mitologia e religione prima, letteratura e mondo delle fiabe poi, hanno saputo popolare l’immaginario collettivo. Così tanto evocativa che si può dire che, nonostante i tanti ribaltamenti, la sirena sappia cantarci ancora. Una delle più grandi studiose sull’argomento è Elisabetta Moro, antropologa, professoressa universitaria a Napoli e autrice di un saggio splendido, “Sirene”, uscito per il Mulino nel 2019. Non è un caso che sia una persona del Napoletano una delle massime esperte del mito: Napoli stessa, nel suo nome originale, si chiamava come una sirena, Partenope. Nel libro Elisabetta Moro fa risalire il simbolo della sirena alla dea Siria, un’antica, potente divinità della zona dell’Eufrate. La dea Siria è la prima sirena rappresentata come pesce, mentre la mitologia dei greci, com’è noto, l’avrebbe raffigurata alata. Giambattista Vico sottolinea come la radice
sir- accumuni appunto le parole
sirena e
Siria. Terra antica dunque quella che diede i natali alla dea in questione, la culla dell’umanità. Lo stesso posto dove abitano i curdi oggi, impegnati in una resistenza da popolo perseguitato per certi versi simile alle vicende di allora. Anche la dea Siria nacque per legittimare l’esistenza di un popolo. Citando Elisabetta Moro: “Secondo Chirassi Colombo la dea Siria è una divinità etnica del tutto particolare, perché anziché essere la bandiera identitaria di un gruppo etnico è il simbolo di una estraneità”. Il mito della dea Siria nasce quindi come intrinsecamente rivoluzionario e anti-identitario (intendendo l’identità alla stregua di quello che diventerà per alcune destre di oggi, sangue e confini). Furono poi i greci a riscrivere il mito. La sirena divenne alata, e soprattutto un mostro. La sua voce non andava ascoltata, pena la morte. Ma l’opera di ribaltamento definitiva venne dalla chiesa, che restituì alla sirena la forma di metà donna e metà pesce, aggiungendo alla stigmatizzazione della voce anche quella del corpo. È proprio la città di Napoli a essere teatro di un tentativo in larga parte riuscito di colonizzazione dell’immaginario pagano: Santa Patrizia, vergine cristiana, venne costruita sul modello di Partenope (e ad essa sovrapposta) da un agiografo del Cinquecento della controriforma. E alla fine arriva Andersen.
Partenope spegne l’eruzione del Vesuvio. Fontana della Chiesa di Santa Caterina della Spina Corona a Napoli, anche detta “Fontana delle Zizze”, XV-XVI secolo
Hans Christian Andersen, danese, ottocentesco, si differenzia da Perrault e dai fratelli Grimm perché non attinge alla tradizione orale ma inventa lui stesso le storie che scrive. Profondamente religioso, non nasconde affatto una morale luterana stringente in fiabe in cui il sacrificio è presentato come lieto fine: pensiamo a La piccola fiammiferaia che muore di freddo (ma va in paradiso), al Soldatino di piombo che brucia con la sua ballerina nel camino in una gloriosa (e vittimistica) morte-suicidio, e poi, certo, alla sua Sirenetta. Perché quella della Disney non è affatto fedele all’originale di Andersen. La nostra, infatti, nella fiaba danese muore. Non viene scelta dal principe, il quale tuttavia le dà “il permesso di dormire fuori dalla sua stanza su un cuscino di velluto”, come un cagnolino. Quando le viene preferita un’altra, le sorelle sirene appaiono a pelo d’acqua con inedite teste rasate e le dicono che hanno fatto un patto con la strega del mare: hanno rinunciato ai loro capelli perché lei si possa salvare; l’unica cosa che deve fare è uccidere il principe. Lei non lo uccide. Preferisce uccidere sé stessa. Si getta nel mare e, nell’ottica luterana propria di Andersen, viene premiata. Diventa uno spirito dell’aria. Dovrà fare buone azioni per trecento anni, e la sua anima sarà salva. Non contento, Andersen aggiunge una perfetta formula foriera di sensi di colpa nei bambini: “Ogni volta che troviamo un bambino buono che rende felici i suoi genitori […] il Signore ci abbrevia il periodo di prova”, “Se invece troviamo un bambino cattivo e capriccioso […] ogni lacrima aumenta di un giorno il nostro tempo di prova”. Ecco dunque da dove viene La Sirenetta.
Nel nuovo finale la Disney diventa perfino più esplicita nel rimarcare la sua posizione su quale sia il posto delle donne: Ariel riconsegna il tridente al padre, il potere torna dov’è sempre stato. Sconfitto infine il femminile spaventoso, Ursula, esiliata dall’immaginario come una dea Siria nata prodigiosa e diventata terribile come tutto ciò che vorremmo rimuovere dall’inconscio, la sirenetta ridefinisce il re risorto come quello definitivo. Ma il vero lieto fine è la promessa di Re Tritone di ascoltare la figlia, d’ora in poi. Come a dire: il patriarcato non rinuncia mica al suo potere, ma può concederti l’ascolto. Un po’ come la Disney, che ci concede la rappresentazione di sirenette nere e asiatiche, ma solo per riprendersi il suo scettro. Troppo poco è stato notato infatti che, nonostante la grande operazione commerciale che è stata La Sirenetta (con tanto di collezione di trucchi a tema pubblicizzata prima del film al cinema, firmata Kiko Milano), il regista e lo sceneggiatore sono due uomini. In definitiva: grazie per la gentile concessione, ma La Sirenetta è un grande no. Per nulla togliere alla collezione di trucchi, che certamente saranno carinissimi.