Letteratura

Pasolini

L’uomo perduto

  • 5 marzo, 07:23
Pier Paolo Pasolini

Pier Paolo Pasolini

  • Keystone
Di: Marco Alloni

Come Cristo avrà sempre 33 anni, Pasolini (5 marzo 1922 – Roma, 2 novembre 1975) avrà sempre 53 anni, non i 100 che compie in questi giorni. Avrà l’età che lo proietta oltre il tempo biografico, in quella permanenza del pensiero che probabilmente durerà ancora qualche secolo.

Inutile cantarlo, tanto meno commemorarlo. Quando un autore, sospeso in una sorta di immutabilità, resiste non meno ai cultori che ai detrattori, quando un autore inaugura un biografismo inesauribile, aggiungere tasselli alla sua celebrazione è puro pleonasmo. Pasolini non diventerà mai una immagine ulteriore rispetto a se stesso, perché comunque lo si voglia inquadrare ha scolpito un momento della storia culturale occidentale che ha di fatto siglato un accordo tra il suo essere transeunte e il suo essere eterno.

Pasolini, voce corsara

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Né ha senso indugiare sull’agiografia, come se fosse appunto un santo come Cristo, poiché si finirebbe per voler teologizzare un intellettuale che è in sé una teologia, almeno nella misura in cui il suo canto dell’uomo è in definitiva equivalente al tradizionale canto teologico di Dio. In questo senso Pasolini è addirittura una sintesi tra teologia religiosa e teologia laica, essendo il suo Vangelo esistenziale ed estetico esattamente speculare a quello religioso come lo conosciamo.

Pier Paolo Pasolini e Marco Blaser [1969]

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Questo dunque viene subito al pensiero quando si prova – direi vanamente – ad aggiungere un tassello alla riflessione su Pasolini: laddove i santi canonici hanno celebrato in prima istanza il divino, il poeta di Casarsa ha celebrato in prima istanza l’uomo. E laddove le religioni canoniche, in particolare il cristianesimo, hanno ricondotto l’uomo alla divinità, egli ha riconosciuto nel divino la sua quintessenziale umanità. Divino è infatti, in una lettura «teologica» di Pasolini, tutto ciò che l’uomo è all’origine, in quella dimensione dell’essere ab ovo che sfugge a ogni categorizzazione. Divino è l’uomo se osservato e contemplato nella sua natura essenziale: ovvero, per dirla in un linguaggio antropologico-simbolico, nella sua nudità e nella sua primitività.

In questo quadro e in questa chiave, l’uomo pasoliniano è emblema di tutto ciò che per contrasto non è capitalistico, non è consumistico, non è industriale e non è mercantile: in una parola, è emblema di tutto ciò che non è moderno. Non nel senso deteriore o retorico di incarnare il «buon selvaggio» di Rousseau, ma nel senso più pieno di quanto va inteso come primitivo o premoderno, come primordiale o come essenzialmente nudo, nel concetto di umanità. Potremmo persino dire che l’uomo pasoliniano è vocazionalmente un uomo astorico: determinato e cointeressato di tutte le questioni storiche di cui è risultante e protagonista – a partire dal precipitato più immediatamente riconoscibile dell’essere nella storia, il quadro socio-politico – ma preteso in pari tempo come espressione della quintessenzialità dell’umano. La stessa che, pur confondendo i demiurghi della crescita «sviluppo» con «progresso», trova nell’immutabile il proprio baricentro.

Pasolini senza retorica

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Pasolini è pertanto, come tutti gli scrittori e tutti i poeti degni di questo nome, in prima istanza un filosofo. E come tutti i filosofi, in prima istanza un ricercatore e un difensore dell’essenza. Quell’essenza che nella sua interpretazione apocalittica del moderno e del contemporaneo, nella sua proverbiale denuncia della disastrosa «mutazione antropologica» subentrata con l’avvento dell’omologazione televisiva e della società dei consumi, solo possono incarnare i residuati della cultura popolare e della purezza primitiva.

Ecco allora l’uomo essenziale, l’uomo primitivo del Pasolini filosofo, cioè del Pasolini umanista: i ragazzi delle borgate non ancora contaminati dalla civiltà dei consumi (non ha caso chiamati ragazzi di vita), gli artigiani non ancora annientati dal grande processo industriale e dalla sua vocazione predatoria, quei poveri del Terzo Mondo (dell’India, per esempio, o dello Yemen) che conservano l’ingenuità e l’innocenza del primitivo, quei corpi denudati fino allo scandalo che ci riconsegnano alla matrice della nostra animale purezza.

Chi dunque ha realmente assassinato Pasolini? Qualche addentellato di quella Dc chiamata dal poeta «clerico-fascismo»? Lo stesso Pelosi? No, più probabilmente il mandante ultimo della sua morte si chiama Modernità: una Modernità che ha sacrificato sull’altare del progresso e dell’omologazione, insieme al suo genio, anche un’intera umanità incontaminata che da Pasolini in poi non ha più avuto diritto di cittadinanza nel mondo.

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