Come sfuggire allo sguardo pietrificante di Medusa? Se lo chiedeva Italo Calvino in apertura della sua prima lezione per il nuovo millennio, dedicata all’opposizione leggerezza-peso e stimolata da un’impasse “professionale”, data dal divario apparentemente incolmabile tra l’agilità scattante e tagliente che voleva animasse la sua scrittura e la realtà che doveva rappresentare, con la sua pesantezza, inerzia e opacità. «In certi momenti», racconta, «mi sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pietra: una lenta pietrificazione […] che non risparmiava nessun aspetto della vita». Cercava di cogliere, precisa, una sintonia tra il movimentato «spettacolo del mondo, ora drammatico, ora grottesco» e il ritmo interiore «picaresco e avventuroso» che lo spingeva a scrivere. Ecco allora che gli viene in soccorso il mito greco, allegoria del rapporto del poeta con il mondo. L’eroe che sconfigge la Gorgone dalla chioma serpentina è Perseo, che vola leggero coi sandali alati e non rivolge il suo sguardo direttamente sul volto demoniaco, ma solo sulla sua immagine riflessa su uno scudo. «È sempre in un rifiuto della visione diretta che sta la forza di Perseo», commenta, «ma non in un rifiuto della realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato di vivere». Affermazione, questa, che ben ricorda una sua celebre riflessione espressa ne Le città invisibili (1972): «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme». Per non soffrirne, o si accetta l’inferno fino a diventarne parte, o si cerca di riconoscere «chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
In altre parole, «L’enfer, c’est les autres», come scrisse Jean-Paul Sartre nella pièce teatrale A porte chiuse (1944), ma solo se glielo permettiamo. Lo zolfo, il rogo, la graticola… sciocchezze rispetto a tutti questi «sguardi che mi divorano» dirà Garcin, quando scoprirà che quella stanza asfittica, senza finestre e senza specchi, dove era rinchiuso con altri due dannati, era priva di demoni giacché «il carnefice è ognuno di noi di fronte agli altri». Lui, il disertore che aveva «tutti gli occhi puntati» su di sé, compresi i «grandi occhi» giudicanti della moglie, tradita e umiliata, è qui perseguitato da due donne, Estelle e, soprattuto, Inès, l’unica che è disposta a «lottare a viso scoperto» e a smascherare gli altri due ipocriti assassini. E quando infine arriverranno ad ammettere le proprie colpe, e comprenderanno che sono loro stessi a decidere la loro pena – «nessuno di noi può salvarsi da solo; o ci perdiamo insieme o collaboriamo» nota Garcin – sceglieranno nondimeno di torturarsi. Coi loro sguardi che fissano e cristallizzano l’intera esistenza altrui in un’immagine ora reale ora deformata. «Lo sguardo d’altri», scrisse ancora Sartre, «forma il mio corpo nella sua nudità, lo fa nascere, lo scolpisce, lo produce, come è, lo vede come io non lo vedrò mai» (L’essere e il nulla, 1943). E viceversa, gli altri non vedranno mai il nostro vero Io, le varie sfaccettature del nostro essere, giacché il loro sguardo ci pietrifica in quella-persona-lì, una figura piatta e spesso immutabile.
Se è indubbio che il nostro Io si formi attraverso le relazioni con gli Altri, è anche vero che spesso l’Io si deforma e si disperde per conformarsi alla società. È questo l’inferno umano, troppo umano, dipinto in musica da Giorgio Gaber. La dannazione, nel suo canzoniere, è riservata a chi sceglie di non vivere a «bendopoli», cittadina ir-reale i cui abitanti sono affetti da «condizionamento totale» e «visione delle cose [pari a] zero» (La benda). Chi non vi fa parte non può far a meno di notare «le facce stravolte» e «i volti abbruttiti» dei tanti, «moltissimi» e «tutti uguali» signori nessuno (La caccia). Più che temere gli «occhi iniettati di sangue» di chi è assetato di potere, il cantautore è annichilito dagli «sguardi vuoti» della gente priva di ideali (Il grido). E più che dagli “sguardi”, Gaber è ossessionato dalle “facce”: in Mi fa male il mondo la parola ricorre ben trentacinque volte. Chi ha una visione lucida della realtà è condannato a vedere «facce presuntuose e spudorate», «facce che non sanno niente e dicono di tutto», «facce suadenti e cordiali con il sorriso di plastica», «facce compiaciute e vanitose che si auto incensano»; e ancora, «facce che hanno sempre la risposta pronta» e «facce scolpite nella pietra, che con grande autorevolezza sparano cazzate». In questo «ignobile carosello», in questo «libero mercato delle facce», non ve n’è una che abbia dentro «il segno di un qualsiasi ideale». E chi, invece, li ha, è «in balia di tutti questi nessuno», accerchiato da «facce che ogni giorno assaltano la mia faccia». Un inferno, quello di Gaber, di volti mostruosi e mani melliflue: un «carosello inutile grottesco», un «festival viscido e nauseabondo» di intrecci di mani: subdole, suadenti, mollicce, schifose (Le mani). «Mani dappertutto, tantissime mani, le guardo, mi sommergo, annego e sprofondo», grida il “dannato”.
Ad essere “benedetti” sono quelli che sono immersi in questo inferno, come avvertì Calvino, ed anzi, ci sguazzano. Personaggi tutt’altro che malvagi, ma vuoti, come Il conformista: «un’animale assai comune» che «vive nel suo paradiso»: adeguarsi a tutto senza farci caso e scivolare naturalmente nel «mare della maggioranza», dove «galleggia» e si muove «senza consistenza». È il risultato di una specie che «vola sempre a bassa quota in superficie»; uno che non ha mai dubbi ma «ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa». Figure effimere che vagano «senza lasciare mai un’impronta» (Che bella gente), persone «piatte molli stanche» (Quando lo vedi anche), con «pochissimo spessore» (I padri tuoi): «l’interezza» non è il loro forte, per sentirsi a loro agio hanno bisogno di interpretare una «parte», come quella dello pseudo-intellettuale che leggicchia Hegel ed è tutto preso, non dal filosofo, naturalmente, ma dal «fascino di studioso» che emana (Il comportamento). E qui ritorniamo all’inferno di Sartre, e insieme a quello di Calvino: come precisa Gaber in Il granoturco «è impossibile sfuggire al destino di essere congelati nei pensieri degli altri»; «gli specchi degli altri [che] ti ributtano addosso le tue definizioni»: non si può scappare dal giudizio altrui, ma è proprio per questo che occorre avere il coraggio di essere se stessi, altrimenti si diventa «tutto e tutti quanti» (Io e gli altri), “nessuno e centomila”, direbbe Pirandello. Il segreto per sfuggire alla pressione sociale che ci schiaccia al suolo, quella «folla enorme che [ci] tira per le braccia» (La leggerezza, 1974), e spiccare veramente il volo, occorre sottrarre peso alle cose: «cerca d’inventare la tua leggerezza», ci dice Gaber in quel brano che pare anticipare la prima delle Lezioni americane (1984) da cui siamo partiti, dove Calvino sottolinea che «esiste una leggerezza della pensosità, così come tutti sappiamo che esiste una leggerezza della frivolezza; anzi, la leggerezza pensosa può far apparire la frivolezza come pesante e opaca».
«Voglio guardarvi con i miei occhi», diceva Inès agli altri dannati, l’unico personaggio del capolavoro sartriano capace di riconoscere l’inferno e i propri mostri interiori; «anche l’uomo più mediocre, diventa geniale se guarda il mondo con i suoi occhi» cantava Gaber in Una nuova coscienza, dove ci invita a «smascherare tutto», gli altri e noi stessi, il conformismo e le nostre presuntuose convinzioni, per riconoscerci e comprendere appieno che «un uomo non può essere veramente vitale, se non si sente parte di qualche cosa». In altre parole, già ricordate, basterebbe capire «chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno».
Italo Calvino - Un uomo invisibile
RSI Cultura 13.04.2022, 14:53