Jean-Paul Sartre scrive Che cos’è la letteratura per difendersi, ancora una volta, argomentando, dall’accusa di militantismo. O meglio, dall’accusa di credere solo in una letteratura impegnata. O meglio ancora, di credere nella prosa impegnata (poiché la poesia, a suo dire, risponde a un’altra logica: “si rifiuta di utilizzare il linguaggio” e “utilizza le parole come cose e non come segni”).
Per quale ragione Sartre si vede costretto a difendere questa idea di letteratura, a propugnare il valore della letteratura impegnata? Perché “la funzione dello scrittore è di far sì che nessuno possa ignorare il mondo o possa dirsene innocente”. E perché a suo dire lo scrittore non deve mirare allo stile ma, necessariamente avendolo, piuttosto cercare di dimenticarlo e farlo dimenticare: “Lo stile, senza alcun dubbio, dà valore alla prosa, ma deve passare inosservato”.
Viceversa non deve passare inosservata l’istanza della libertà, vale a dire la complicità che si instaura tra scrittore e lettore affinché la libertà del lettore faccia vivere l’opera dello scrittore. E proprio libertà è il termine chiave per capire quell’opera e in genere l’idea di letteratura militante.
La domanda capitale è infatti: dobbiamo noi, in quanto esseri umani, impegnarci per il mondo, usare la nostra libertà per farcene protagonisti e “miglioratori”, o dobbiamo invece, come esseri umani, come scrittori, lasciare che proceda a suo capriccio essendone noi gli effetti e non i liberi determinatori?
La domanda, implicita, che Sartre sottopone ai suoi contemporanei ha continuato a vibrare nelle nostre coscienze per molti decenni e ha oggi un valore addirittura cruciale, poiché il fatalismo e il disincanto che accompagnano la nostra epoca “della rassegnazione” non hanno probabilmente precedenti in nessuno dei tempi precedenti.
Domina oggi infatti un sentimento del conformismo (in senso sociale e borghese, ma anche in senso filosofico e morale) che si configura come una sorta di obbligatorietà all’esserci. Laddove essere significherebbe impegnarsi per contestare l’esistente, l’etica dominante predilige, sempre più visibilmente, esserci nel più totale disimpegno per poter fruire di quella visibilità, di quel gaudio e di quel senso di appartenenza e allineamento che soli possono assicurare oggi l’appartenenza al Sistema.
Sartre lo afferma senza mezze misure: “Quanto più si prenderà gusto a cambiare il mondo, tanto più esso risulterà vivo”. E aggiunge, in polemica con il realismo e in particolare con il realismo socialista: “L’errore del realismo è stato di credere che il reale si rivelasse nella contemplazione”. Se volessimo aggiornare i termini del suo discorso, sostituendo la parola realismo con la parola capitalismo, scopriremmo che il pensiero di Sartre conserva una stupefacende attualità. Oggi il realismo più pernicioso è quello di aderire all’ideologia capitalistica con spirito contemplativo, come se nulla potesse più essere pensato criticamente contro la sua definitiva affermazione. L’impegno – l’essere contro il capitalismo – semplicemente è annientato dal sistema medesimo del capitalismo, che laddove pretende un esserci contemplativo, cioè un aderirvi senza alcun impegno contestativo, sancisce di fatto il trionfo di quella passività e di quell’arrendevolezza che nel linguaggio di Sarte potrebbero essere declinati come “rassegnazione” e, secondo il termine gramsciano, come “indifferenza”.
Per questo Che cos’è la letteratura? continua a mandare la sua luce verso di noi. Perché nel fondo più intimo della sua denuncia dell’indifferenza lancia un monito a tutti, in particolare a quella sterminata pleiade di scrittori che, lungi dal proporsi un discorso di libertà e liberazione, di impegno e contestazione, operano essenzialmente per il consenso, ovvero per la conservazione e il conformismo. Come se, appunto, allo stesso modo in cui pensavano i plaudenti del socialismo sovietico con il loro realismo socialista, non possano esistere mondi migliori di quello capitalistico. O quanto meno non esistano ragioni o margini perché il mondo capitalistico venga letterariamente, cioè con pieno engagement letterario, criticato o addirittura liberato dai suoi gioghi.