È un dialoghetto fondamentale, quello che Anna Chiarloni intrattiene con la scrittrice tedesca Christa Wolf nel volume Nel cuore dell’Europa, uscito nel 1992 per le edizioni E/O. Fondamentale perché si svolge in un periodo cruciale per i destini del Vecchio Continente (siamo a ridosso della caduta del Muro di Berlino), ma anche perché aiuta a comprendere come la vera, la grande letteratura non è mai al servizio di altre divinità che non siano la “verità” e la “complessità”.
Mettiamo necessariamente tra virgolette i due termini e li indichiamo deliberatamente in minuscolo. Perché a questo mira ogni letteratura degna di considerazione: contrapporre alla Verità maiuscola, di norma ideologica, quella minuscola e fondamentalmente umana, che con la prima non ha che un rapporto di subordinazione. E contrapporre al Dogma, di norma ideologico a sua volta, la problematizzazione, che nella complessità trova appunto il proprio emblema.
Christa Wolf (1929-2011) applica questo atteggiamento – nel corso di un’intera esistenza improntata a quello che lei stessa chiama il vivere resistendo – a un contesto in cui la Verità tende facilmente a farsi maiuscola e il Dogma a proporsi come assoluto: quello della Repubblica Democratica Tedesca (DDR), reduce, a partire dal dopoguerra e dall’edificazione del Muro di Berlino nel 1961, dalla più grande lacerazione storica occorsa nel cuore dell’Europa: la spartizione di un intero Paese tra due Imperi contrapposti.
E come lo applica, tale atteggiamento? Come trova la forza, la tenacia, il coraggio, costante e reiterato nei decenni, di applicarlo? Il cuore del volumetto potrebbe essere individuato nella considerazione che abbiamo qui posto in apertura: lo applica attraverso la letteratura, perché riconosce nella letteratura lo strumento critico fondamentale per decostruire i falsi idoli del Dogma e della Verità, cioè per esporli, attraverso la riflessione letteraria, all’umanizzazione dei distinguo e della problematizzazione.
Nello specifico, Nel cuore dell’Europa demolisce due idoli altrettanto capziosi e fuorvianti: quello dell’ideologia positiva e quello della demonizzazione negativa. Ripercorrendo la storia della Germania dal tempo dell’avvento nel nazismo a quello della lacerazione post-bellica e infine a quello della riunificazione tedesca, ci educa al fatto che né il Bene né il Male hanno una patria assoluta, e che la letteratura ha come suo compito imprescindibile quello di lottare con ogni oncia di pensiero e di morale contro la tirannia delle diadi e delle Verità maiuscole e apodittiche.
A proposito della sua identità e di quello che può aver significato per lei appartenere a condizioni politiche e sociali di volta in volta così diverse tra loro, Christa Wolf afferma con una formula che sembra riassumere il senso stesso dell’agire letterario, il senso stesso del senso letterario: “Cosa volete sentire su questa questione dell’identità? Si tratta semplicemente di 40 anni di vita vissuta”. E precisa: “Sono assolutamente certa di non correre più alcun rischio, alla mia età, di identificarmi con uno Stato qualsiasi”. Parole da incidere a caratteri cubitali su ogni frontone di questo o quel circolo letterario, poiché di fatto la letteratura è appunto vivere resistendo, e nessuna identificazione dogmatica, ideologica, assolutoria a priori o demonizzatrice a priori, può pretendere per sé di sposarsi con il principio della letterarietà, cioè essere contemporaneamente resistente e obbediente.
Detto questo, la letteratura come resistenza non può essere giocoforza che un’esortazione all’individualismo e alla presa di coscienza che la storia dell’umano è storia di individui, la cui verità finale, maiuscola o minuscola che si voglia, è sempre storia privata e storia dell’Io. Di più: la letteratura ci esorta a fare i conti, costi o non costi la riprovazione politica o l’ostracismo sociale, con il fatto che la nostra storia personale è sempre e solo nostra, e che il tema della letteratura è pertanto, sopra ogni altro possibile tema, nel grandioso paradosso secondo il quale ogni opera letteraria universale prende forma dall’individualità, laddove nessuna universalità è veramente significativa se non quando si innesta nell’individualità. Tanto meno una singola persona – questo suggerisce infine la Wolf – pretende dalla propria individualità i caratteri dell’universalità, quanto meno tale individualità – diciamolo pure, tale identità – assume i contorni di uno Stato o di un potere.
Dice allora, rivelando questo indissolubile connubio tra psicologia dell’Io e identitarismo politico: “È una vecchia esperienza della psicologia il fatto che quanto più una persona è autonoma, in termini psicologici, tanto più forte è il suo Io, tanto meno sente il bisogno o è costretta a ricercare un’identità al di fuori di sé, a identificarsi con uno Stato, oppure con un partito, o con una religione, e così via”.
Cosa ne dobbiamo concludere? Che gli ultimi 70 anni della Germania sono una condizione storica che la letteratura traduce o può tradurre in un esperimento umano: quello attraverso il quale possiamo prendere atto che il Bene e il Male sono sempre e soltanto dentro di noi, che si può essere costretti al nazismo senza riconoscersi nel nazismo, si può essere antifascisti senza precipitare nello stalinismo e si può essere umani anche laddove il mondo e la storia congiurano perché non lo si sia.
Christa Wolf: 10 anni dalla scomparsa
Diderot 01.12.2021, 18:10
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