«Non so che poeta io sia stato in tutti questi anni. Ma so di essere stato un uomo: perché ho molto amato, ho molto sofferto, ho anche errato cercando poi di riparare il mio errore, come potevo, e non ho odiato mai. Proprio quello che un uomo deve fare: amare molto, anche errare, molto soffrire, e non odiare mai» (Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, 1992).
Queste sono le parole pronunciate in pubblico da Giuseppe Ungaretti (nato ad Alessandria d’Egitto l’8 febbraio 1888) per i suoi ottant’anni. Passerà molto tempo e molte cose saranno cambiate dalla sua prima gioventù ad Alessandria d’Egitto, lontano anche da quel 1912, quando, a ventiquattro anni, lascerà la città natale per dirigersi a Parigi percorrendo per la prima volta la terra dei suoi genitori, l’Italia. E la Parigi di quegli anni sarà straordinariamente viva e feconda: là vi trova i maggiori esponenti delle avanguardie letterarie e artistiche, e Ungaretti non sarà da meno (due anni dopo pubblica le sue prime poesie su “Lacerba”). Poi scoppia la guerra, e gli anni s’incupiscono nel fango delle trincee. Ma proprio qui scrive la raccolta intitolata L’Allegria. Per la prima volta Ungaretti dimostra come la poesia non sia un mero esercizio di retorica: il poeta tiene con fermezza al suo carattere salvifico, carattere che il suo caro amico Moammed Sceab non riuscirà a far proprio...
Ungaretti partecipa della vita degli altri, e della morte degli altri. La sua lunga vita è segnata da perdite forti, da «colpi» direbbe Virginia Woolf, quei colpi che un poeta come Ungaretti sublima in arte, in una poesia del dolore che rivela in se stessa quel che il poeta vi scova di salvifico. E questo è chiaro sì ne L’Allegria, ma ancor più ne Il Dolore.
1
“Nessuno, mamma, ha mai sofferto tanto...”
E il volto già scomparso
Ma gli occhi ancora vivi
Dal guanciale volgeva alla finestra,
E riempivano passeri la stanza
Verso le briciole dal babbo sparse
Per distrarre il suo bimbo...
2
Ora potrò baciare solo in sogno
Le fiduciose mani...
E discorro, lavoro,
Sono appena mutato, tempo, fumo...
Come si può ch’io regga a tanta notte?...
(Giorno per giorno, 1940-1946)
In un’epoca mutevole, dove la vita è fragile e incerta come «d’autunno / sugli alberi / le foglie», Ungaretti (8 febbraio 1888 – Milano, 1º giugno 1970) batte su stabili e perenni costanti dei sentimenti: il dolore e l’amore, il solidale coraggio. E le attraversa in più di mezzo secolo. Una vita dura, indurita dal dolore, ma anche aperta a brevi quanto mai intensi momenti di gioia, forti abbastanza da buttar luce sulla via per la Terra Promessa. E se pensiamo che Ungaretti è stato sempre un girovago: «In nessuna / parte / di terra / mi posso / accasare...»; quella Terra Promessa, per lui, è forse la poesia.
La poesia di Ungaretti nasce lontano dal clima letterario italiano, lontano dal confronto con D’Annunzio, Pascoli e Carducci, fuori dalle polemiche del tempo, dalla necessità di una presa di posizione dentro o contro o rimescolando queste eredità, come chi – penso a Campana, Saba, Montale – vissuto in Italia in quel periodo ha dovuto fare. Ungaretti li conoscerà più tardi e questo gli permetterà di entrare di traverso nella poesia di lingua italiana. Le fonti letterarie che scopre durante gli studi giovanili presso l’École Suisse Jacot di Alessandria d’Egitto, e che saranno per lui decisive, sono Baudelaire, Nietzsche, Mallarmé e Leopardi. Sarà vicino in particolar modo a quest’ultimi due, di Mallarmé poi lo rapì «la sua poesia così piena del segreto umano dell’essere, che chiunque può sentirsene musicalmente attratto anche quando ancora non ne sappia che malamente decifrare il senso letterario».
In un contesto in cui nessun periodico era intenzionato a ospitare poesia temendo di disonorarsi (volevano prosa), a Ungaretti la memoria appariva come un’ancora di salvezza: «io rileggevo umilmente i poeti, i poeti che cantano» (dice nel 1930 sulla “Gazzetta del Popolo” di Torino). In Jacopone o in Dante, in Petrarca, Tasso o Leopardi non cerca il verso, ma il loro canto; non l’endecasillabo, il novenario o settenario, è «il canto italiano», il canto della lingua italiana che rimane costante attraverso secoli e voci così diverse.
Giuseppe Ungaretti: il poeta che diede senso al nulla
Laser 09.12.2009, 01:00
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La poesia di Ungaretti non tende mai all’eleganza nutrita di raffinate suggestioni musicali o metriche, né alla sofisticatezza comune ad altri, bensì all’essenzialità della parola, una parola spesso comune, popolare, antica. Dai rami offerti da Leopardi e Mallarmé, e in piena crisi del linguaggio in Europa, Ungaretti ha proposto «una lingua italiana del ventesimo secolo, non somigliante ad alcun’altra», dice Leone Piccioni, una lingua tanto popolare da resistere al tempo, perché semplice, perché spontanea. È proprio nei tempi di crisi, quando si perdono le sostanze prime, che chi, per capacità d’attenzione, non si lascia trasportare dai fronzoli, rimanga ben ancorato a quanto vi è di essenziale. Questo è manifesto ne L’Allegria, le cui poesie saranno scritte nel periodo in cui la morte è più vicina e la vita è più vicina, scritte nei ritagli di tempo tra una battaglia e l’altra, trovandovi ora momenti d’orrore (Veglia), ora di mistica gioia (Mattina).
Vi arriva il poeta
E poi torna alla luce con i suoi canti
E li disperde
Di questa poesia
Mi resta
Quel nulla
D’inesauribile segreto
(Il porto sepolto, giugno 1916)
Parole e composizioni semplici, molto, e per questo difficili, talvolta oscure come spesso gli è stato imputato ai tempi del Porto Sepolto. Ma la poesia non può, come ogni arte, distaccarsi da questa difficoltà che ha la sua semenza nel segreto della vita e dell’esistenza, nel tentativo più o meno maldestro non tanto di svelarlo quanto piuttosto di catturarlo e mostrarne la presenza in un pugno serrato. Ma quel segreto, anche passando dalle sua dita, rimarrà pur sempre nascosto al poeta stesso, e solo così potrà porsi come fonte prima dell’ispirazione poetica.
Nel 1922 Ungaretti dice: «Il mistero c’è, è in noi. Basta non dimenticarsene... e col mistero, di pari passo, la misura», non del mistero, ma nostra. Il mistero è il terreno d’appoggio, «e mistero è il soffio che circola in noi e ci anima». Il mistero è in noi costante; si tratta di trovare la misura che ne favorisca l’emersione, senza ricorrere al fantastico e senza cercare di spiegarlo; si tratta «di spalancare gli occhi spaventati davanti alla crisi d’un linguaggio, davanti all’invecchiamento d’una lingua, cioè al minacciato perire d’una civiltà»; si tratta di cercare una qualche ragione di speranza rannicchiata nel cuore della storia, di cercarla nel «valore della parola». Questo valore poi si nutre del mistero e si erge in quella che, nel poeta novecentesco, è la prima preoccupazione: la riconquista del ritmo, cioè la forma. E qui non si nega la memoria, ma si ascolta il più antico verso, poiché là vi è espressa «la fatalità stessa d’una lingua».
Ungaretti ha liberato il verso dalla sua vecchia pelle per far risplendere la parola con rinnovata intensità; nel passo, nel ritmo, nel respiro della natura. Ritmi che sono «gli spettri d’un corpo che accompagni danzando il grido d’un’anima». L’adesione alla parola, con tutto l’essere fisico e morale a «un segreto che ci dà moto», ecco l’armonia poetica.
Qui
Vivono per sempre
Gli occhi che furono chiusi alla luce
Perché tutti
Li avessero aperti
Per sempre
Alla luce»
(Per i morti della resistenza, 1968)
Per Ungaretti, con la tanta sofferenza che dilaga nel Novecento, la poesia non può che rivestirsi della sua eterna missione religiosa. S’immerge, di volta in volta, in una comunione solidale con le persone e la natura; il poeta lega, mediante la non modesta forza della parola, frammenti di vita. Egli si è lasciato levigare dal tempo come ha fatto nell’Isonzo dove ha riposato in guerra e bagnatosi nel quale si è riconosciuto «una docile fibra / dell’universo», e di lì si è diramato ai fiumi, ai tempi e ai luoghi della sua vita: al Serchio dal quale sua madre e suo padre e i suoi avi per millenni hanno attinto l’acqua, al Nilo che lo ha visto «nascere e crescere», sino alla Senna, presso la quale si è conosciuto e dato al mondo in poesia. Con nostalgia un vecchio poeta poi ricorda. Ungaretti ha tenuto memoria di momenti umani e di ricordi umani. E non lo ha fatto secondo cronache, ma secondo incisioni dell’anima.
La poesia di Ungaretti non è mai fuori dalla realtà storica in cui lui stesso è inscritto. Anche le costanti dei sentimenti, del canto e del mistero, sono di una ferrea concretezza. La partecipazione sua non solo della poesia, ma dell’esistenza umana, è storica, giacché ha mostrato e condiviso le condizioni e le sorti di un’epoca. «La mia poesia è un diario» dice, il diario – tanto intimo da essere universale – della sua presenza tra gli altri uomini lungo quel corso chiamato vita.
Ungaretti e la poesia di trincea
RSI Cultura 29.01.1976, 09:00