Letteratura

George Gordon Byron, la vita come scossa elettrica

Byron è modernissimo nel descrivere l’inquietudine e soprattutto nel modo di restituirla e ricrearla letterariamente

  • 30 marzo, 11:33
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Di: Mattia Mantovani

I diari costituiscono molto spesso un complemento, senza dubbio utile ma non sempre fondamentale, alla conoscenza della vita e dell’opera dei grandi autori. Oppure, come nei celebri casi dei Fratelli Goncourt, e in tempi più recenti di Max Frisch e Witold Gombrowicz, il diario inteso come Journal si configura come un ben preciso genere letterario a mezza via tra la narrativa e la saggistica, con l’intento di stabilire un contatto il più possibile diretto coi lettori. Max Frisch, ad esempio, nel Diario della coscienza relativo agli anni 1966-1971, arrivò perfino a stilare dieci questionari di vaga ascendenza proustiana, con lo scopo di coinvolgere i lettori nel gioco -all’apparenza leggero e divertente, ma in realtà serissimo- delle domande e risposte.

Si scrive per la posterità, insomma, oppure per chiarirsi a sé stessi e dialogare con partner immaginari, ma sempre -e inevitabilmente- con una percentuale di reinvenzione e falsificazione che proprio Frisch aveva perfettamente individuato, dicendo che ognuno, col passare degli anni, si costruisce una storia che scambia infine per la propria vita. Il che è verissimo: in fondo, per dirlo in termini molto “pop” e banali, Pirandello e Beckett sono pur serviti a qualcosa. Si tratta infatti di dubbi tipicamente novecenteschi, che nascono dalla percezione dell’io quale entità incerta e volatile, irretita in un continuo gioco delle parti dove non è più possibile dirimere la maschera e il volto, anche perché spesso, come nel ballo di carnevale immaginato nel Casanova a Spa di Arthur Schnitzler, la maschera stessa nasconde una molteplicità di volti che a sua volta si identifica o perfino coincide col nulla.

E’ una dimensione che si profila per la prima volta, ma con la massima evidenza, nel caso di George Gordon Byron. Nato il 22 gennaio 1788 a Londra e morto il 19 aprile 1824 a Missolungi in Grecia, Byron è una delle figure di spicco del romanticismo europeo e viene annoverato tra i massimi poeti britannici di ogni tempo. Ma è anche -soprattutto, si vorrebbe dire- un’autentica icona della modernità. Mad, bad and dangerous to know, lo aveva definito una delle sue tante amanti, Lady Caroline Lamb. Spirito ribelle, scientemente outré e non privo di un nativo gusto per l’eccesso (è stato giustamente definito una rockstar ante-litteram, per quanto abbia vissuto quasi un decennio più a lungo dei membri del futuro “club dei 27”, che annovera i rockettari morti a 27 anni), abbandonò l’Inghilterra e soggiornò per lungo tempo in Italia, avvicinandosi agli ambienti carbonari. In seguito aderì alla causa dell’indipendenza greca, e proprio in Grecia morì per un attacco di febbre reumatica. Pare che la sua ultima frase, pronunciata sul letto di morte al cospetto del fedele servitore Tita, sia stata: «Ah, questa è davvero una bella scena!». Ma l’aneddotica in merito è molto ampia, e non è da escludersi che la frase sia stata invece: «Now i want to sleep», «Adesso voglio dormire» (gli ultimi tre mesi della sua vita sono stati meravigliosamente ricostruiti e reinventati da Frederic Prokosch ne Il manoscritto di Missolungi).

I suoi diari, pubblicati postumi nel 1830, vanno a costituire nel loro insieme una sorta di biografia parallela e per certi versi alternativa. Dopo un breve memorandum, stilato il 22 maggio 1811, c’è un diario londinese (datato 14 novembre 1813/19 aprile 1814) che mostra il poeta all’apice del successo mondano e letterario in Inghilterra a seguito della pubblicazione dei primi due canti del Childe Harold; c’è uno splendido e coinvolgente diario di viaggio nella Svizzera Romanda e nell’Oberland bernese (18/28 settembre 1816), e quindi negli ambienti e nei paesaggi che l’anno dopo verranno eternati nel Manfred (scritto a Villa Diodati di Coligny); ci sono inoltre alcune note ambientate a Ravenna tra gennaio e febbraio 1821, sullo sfondo di un’Italia scossa dai primi moti carbonari, un brevissimo zibaldone (Il mio dizionario, messo per iscritto il 1° maggio 1821), una raccolta di cosiddetti “pensieri slegati” (15 ottobre 1821/18 maggio 1822) che hanno la forma dell’epigramma, e infine c’è il bellissimo diario della Grecia (19 giugno 1823/17 febbraio 1824) interrotto due mesi prima della morte a Missolungi.

Una morte, peraltro, davvero degna di un rockettaro o di quello che oggi definiremmo forse un personaggio mediatico, anche perché giunge al culmine di una fama ormai diffusa in tutta Europa e provoca un lutto che nell’odiamata Inghilterra, con la sola eccezione dell’aristocrazia, assume quasi le connotazioni di un delirio collettivo. Pare che un bottegaio, al passaggio del corteo funebre, abbia esclamato: «Un grande poeta, ma infelice… E’ il destino del genio. Anch’io sono spesso infelice». A tanto possono arrivare il mito, le proiezioni immaginative, il nulla comune e non da ultimo l’umana bêtise. Lo aveva perfettamente capito il giovane Gustave Flaubert, byroniano “doc” e massimo fustigatore della bêtise, che sulla via del ritorno da un breve viaggio in Italia e Svizzera -compiuto a ventiquattro anni nella primavera 1845, quindi un ventennio dopo la morte di Byron- aveva visitato il castello di Chillon sul Lago Lemano per rivivere gli ambienti e le situazioni descritti nel livre de chevet della sua adolescenza: Il prigioniero di Chillon.

La vicenda storica e la reinvenzione poetica sono note. François de Bonivard, che aveva difeso l’indipendenza di Ginevra contro il duca Carlo III° di Savoia, venne rinchiuso dal 1530 al 1536 nel castello di Chillon. Profondamente commosso dalla vicenda, in occasione della sua visita al castello Byron scrisse di getto il celebre poema, pubblicato nel 1816. Le annotazioni di Flaubert, caratterizzate dall’ammirazione per Byron ma non prive di una certa ironia, fanno capire fino a che punto la visita al castello fosse una tappa obbligata per i turisti in cerca di emozioni culturali: «Il nome di Byron è scritto sul terzo pilastro dopo l’ingresso, il secondo prima di arrivare a quello del prigioniero. E’ inciso nella roccia, di traverso, con sopra una barra, per tutta la lunghezza, come se lo si fosse voluto cancellare. E’ scritto in nero: è già l’azione del tempo, oppure si tratta di inchiostro messo per far risaltare le lettere? In mezzo a tutti i nomi di ignoti che scalfiscono e affollano la superficie della pietra, spicca solitario con tratti di fuoco. Confesso che ho pensato più a Byron che al prigioniero. Al di sopra del nome, la pietra è un po’ smangiata, come se la mano enorme che vi si è appoggiata per qualche istante l’avesse consumata. Ho immaginato quella mano impegnata ad incidere queste cinque lettere. Quando sono entrato, ho visto il nome “BYRON” e mi sono sforzato di pensare i pensieri che vi aveva pensato. Mi sono messo la mano sul cuore, e l’ho sentito battere più forte del solito».

A proposito di battito del cuore. Nei diari di Byron, anche in questo caso per la prima volta, le parole e le frasi -separate e insieme congiunte dai celebri trattini- sembrano riprodurre il ritmo del respiro e le pulsazioni cardiache, come un pensiero che continua a pensarsi e una vita che continua a viversi, cristallizzandosi infine in un puro presente che nel suo passaggio è inafferrabile, sfuggente ma anche corrusco e concretissimo, di una luminosità pittorica per la quale si è giustamente operato un paragone con Caravaggio. Tutto è restituito apparentemente con estrema precisione, ma in realtà si tratta di una biografia prismatica, perché anche nei diari Byron reinventa e rimodella continuamente la propria vita. La biografia diventa quindi obliqua, “un vaso d’alabastro illuminato dall’interno”, come dice il titolo scelto per l’edizione italiana, nel senso che Byron racconta se stesso per mezzo degli altri, dove per “altri” bisogna intendere non solo le persone, ma anche gli ambienti, i contesti, le situazioni e i paesaggi che hanno fatto da sfondo a una vita tanto breve quanto tumultuosa.

Ma anche “gli altri”, in ultima analisi, sono principalmente una semplice anche se screziata proiezione dell’io, come emerge chiaramente da molti passi del diario ravennate. Annota ad esempio Byron in data 21 gennaio 1821: «Bella, limpida giornata di gelo. Beninteso, sempre gelo italiano è, e oltre la neve non si va. Uscito a cavallo, come al solito, e tirato di pistola. Buona mira, ho rotto quattro bottiglie di grandezza media, per non dire piccole, con quattro colpi da quattrodici passi, utilizzando un normale paio di pistole e polvere da sparo scadente. Occhio e mira quasi altrettanto buoni».

«A ventitré anni», dice il primo punto del Memorandum del 1811, «il meglio della vita è andato e le sue amarezze raddoppiano». E’ una frase fondamentale per capire l’universo umano e poetico di Byron, perché tutto, in Byron, accade “dopo”, e la scrittura non è altro che un tentativo non solo di salvare dall’oblio la vita concretamente vissuta, ma anche -utopicamente- di riprodurla nella sua irripetibile immediatezza e fisicità. Egoista e misantropo come The Jolly Miller, “l’allegro mugnaio” della canzone tradizionale inglese ricordata nel quinto punto del Memorandum («Non m’importa di nessuno, a me. E a nessuno importa di me»), consapevole già in giovanissima età di essere un sopravvissuto («a tutte le mie brame e perfino alla vanità di essere uno scrittore», dice il settimo e ultimo punto del Memorandum), Byron ricostruisce e racconta la propria vita in presa diretta, ma sempre nella convinzione che tra l’esistenza, il ricordo e la reinvenzione è costantemente aperto un piccolo ma incolmabile iato, quello che Dostoevskij definirà poi “lo scarto irrazionale”: «Se l’avessi iniziato dieci anni fa- scrive il 14 novembre 1813 nella prima nota del diario londinese-, e tenuto regolarmente! Ahimé! Troppe le cose che, a dire il vero, vorrei tanto non dover ricordare».

Il cerchio, che si apre con la prima nota londinese, si chiude idealmente poco meno di nove anni dopo, nell’ultimo dei “pensieri slegati”, datato 18 maggio 1822: «Sono mesi che non prendo in mano questa specie di diario. Devo continuarlo? Chi? Cosa?». I “pensieri slegati” terminano con questa domanda, alla quale il successivo diario greco tenta vanamente di fornire una risposta. Anche Byron, insomma, come dopo di lui i grandi scettici del “secolo breve”, si pone la domanda “Chi sono io?”, ma non può che chiudere nel silenzio e nell’assenza di risposte. Il racconto di una vita, come in Stiller di Frisch, Otto e mezzo di Fellini, Fuoco pallido di Nabokov e La morte di mio fratello Abele di Rezzori, è impossibile. Ma è proprio il racconto di questa sostanziale impossibilità a trasformarsi nel racconto -l’unico possibile- di una vita. Come dice una meravigliosa frase contenuta ne L’ombra delle colline di Giovanni Arpino: «Forse potremmo essere contenti così come siamo, se non sapessimo ciò che siamo stati».

I diari di Byron sono il documento originario e la prima testimonianza di questa lacerante contraddizione, che è la contraddizione di fondo dell’esistenza nel tempo ed è espressa anche in una celeberrima battuta del Manfred, nella seconda scena del secondo atto. A pronunciarla è il protagonista, nel corso del serratissimo dialogo con la Strega delle Alpi nelle vicinanze della cascata: «I dwell in my dispair - And live - and live for ever» («Abito la mia disperazione - E vivo - e vivo per sempre»).

Un re senza corona - Il doge di Venezia

Storia 22.09.2014, 13:35

Il “gran bugiardo” Stendhal, sapendo di mentire, aveva detto che le sue opere costituivano una consolazione per le donne sole oppure malmaritate. Gaté, blasé, roué: così lo ha giustamente definito il suo traduttore Ottavio Fatica, ricordando le parole con le quali il libertino disincantato e malinconico congedava le amanti («I’ll miss you like vice», «Mi mancherai come il vizio», una formula che a quanto pare utilizzava soprattutto a Venezia nel 1817, durante la stesura del Beppo) e aggiungendo che mai come nel suo caso lo stile è l’uomo. Lo stesso Byron, in un passo che ha molto della confessione, ha scritto: «Ho vissuto, e non ho vissuto invano. La mia mente perderà la sua forza, il mio sangue il suo fuoco. E infine, sconfitto dal male, perirà anche il mio corpo. Ma in me esiste qualcosa che consumerà il tormento del tempo e vivrà quando sarò morto».

Byron è modernissimo non solo in questa inquietudine e in questa consapevolezza, ma soprattutto nel modo di restituirla e ricrearla (si vorrebbe quasi dire: depurarla) letterariamente. Leggendo i suoi diari viene da pensare alle memorie di Casanova, perché anche lo stile di Byron è secco, tagliente, incisivo, di una limpidezza e una misura molto settecentesche, ma la sensibilità che si esprime per mezzo di questo stile è già pienamente romantica e anzi, se è lecito usare una simile immagine, è percorsa da scosse elettriche che fanno davvero pensare a talune proposte del Novecento. La personalità del protagonista che racconta se stesso tende continuamente a sfrangiarsi e frantumarsi per poi ricostituirsi in nuove forme, quasi all’infinito, in un gioco di specchi disorientante quanto familiare, almeno per noi “venuti dopo”.

E’ proprio questo il fascino che ancora oggi proviene dall’opera e soprattutto dalla vicenda umana di Byron, così come si profila dalle pagine dei diari. Se infatti c’è un preciso momento nel quale si può individuare la nascita della coscienza moderna, lo si può trovare con ogni evidenza proprio in queste pagine, che costituiscono una fittissima trama di variazioni su un leitmotiv espresso in maniera definitiva in un altro celebre passo del Manfred, nel corso del dialogo tra il protagonista e il cacciatore di camosci. E’ la prima scena del secondo atto. Lo sfondo è l’Oberland bernese e la traduzione, insuperata, è di Giorgio Manganelli:. «Pensi che l’esistenza si misuri ad anni? Sia; ma le azioni sono le nostre epoche; le mie hanno fatto imperituri, interminabili i miei giorni e le mie notti, simili tutti, come arena sulla spiaggia, atomi innumerevoli; ed un deserto, null’altro, morto e gelido, su cui si infrangono onde furiose, e nulla posa, se non carcami, relitti, rocce, alghe salse e amare»

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