È un libro singolare quello che George Orwell scrive nel 1939, a ridosso della Seconda guerra mondiale. Singolare non solo perché, conoscendo la sua opera maggiore, sembrerebbe scaturito da un’altra penna, ma perché racconta un aspetto di sé che spiega assai precisamente perché egli avrebbe in seguito scritto capolavori quali 1984 e La fattoria degli animali.
Il libro in questione si intitola, nella libera traduzione italiana, Senza un soldo a Parigi e Londra. Inutile illustrare di cosa parli: il titolo è sufficientemente chiaro per essere esplicito. Si tratta dell’esperienza che il giovane Orwell, letteralmente privo di mezzi e quasi sempre in totale povertà, consumò tra Francia e Inghilterra nella prima metà del Novecento. Certo, potrebbe sembrare una delle tante avventure bohémien che gli artisti di ogni epoca hanno dovuto attraversare prima di trovare un riconoscimento. Ma in realtà –pur essendo anche questo– è infinitamente di più. Poiché è soprattutto la premessa esistenziale, vitale, ovvero biografica, per comprendere appieno da dove nasca una grande opera letteraria.
Siamo infatti di fronte, con questo libro di memorie, alla dimostrazione del fatto che anche il più raffinato produttore di metafore, quale Orwell incontestabilmente fu, non può in nessun modo cavare la propria visione del mondo se non dall’esperienza concreta. Vale a dire, secondo un lessico a volte fin troppo negletto, altre fin troppo inflazionato, dal vissuto.
Quando ci interroghiamo sul passato di un grande scrittore, indaghiamo di solito le influenze che hanno agitato la sua esistenza intellettuale e culturale. Ma quasi sempre questa attenzione “libresca” è mal riposta, poiché non tiene sufficientemente conto del fatto che la domanda essenziale da porre a uno scrittore non è “Cosa hai letto?” o “A chi ti sei ispirato?” o “Chi ti ha maggiormente influenzato?” bensì una più radicale e beffarda: “Quanto, come e dove hai sofferto il mondo?”
Sembrerebbe una domanda banale, ma è molto di più. Scomponiamola infatti nelle sue tre parti e riferiamola a Orwell. Cosa ne ricaviamo? Ne ricaviamo che se Orwell è Orwell, se Orwell è diventato Orwell, gran parte di quanto può spiegarlo è annidato nel suo vissuto, nella sua esperienza umana. E solo una trascurabile percentuale nella sua formazione letteraria.
“Quanto hai sofferto il mondo?“ La domanda, di solito disinvoltamente ignorata dalle cosiddette “scuole di scrittura creativa”, è cruciale. Orwell potrebbe rispondere: molto, moltissimo, quanto basta per capire che il potere (o se vogliamo il Grande Fratello) agisce in primo luogo sui corpi, sulla privazione e sulla fame.
“Come hai sofferto il mondo?” Nel caso di Orwell la risposta è quasi retorica: nell’immediatezza della precarietà. Dove non ci sono filtri tra noi e la nostra cognizione dell’uomo, dove l’immagine dell’uomo è una diretta emanazione della sua condizione, dove tutto ciò che noi osserviamo lo osserviamo perché lo stiamo vivendo e lo soffriamo perché lo stiamo vivendo.
Ecco, Orwell poté scrivere di un mondo alienato alle logiche della sopraffazione e del controllo, in primo luogo, perché subì egli per primo i contraccolpi e le umiliazioni della sottomissione economica e sociale.
E allora: “Dove hai sofferto il mondo?” A questo, che sembrerebbe un interrogativo pleonastico, l’unica risposta eloquente è: ho sofferto il mondo nel mondo, ho sofferto il mondo perché ero negli stessi luoghi della sua sofferenza.
Questa domanda tripartita è pertanto la sintesi di ciò che, nel caso di Orwell come di qualunque altro autore capace di metafore perenni, abbia da intendersi per “presupposti” alla creatività e alla creazione. Non si troverà mai, nel mondo delle lettere, un vero autore epocale, un vero autore geniale, un vero artefice di metafore imperiture, in una stanza anonima costellata di libri. Prima, durante e dopo questo affondo “tecnico” nella parola, egli sarà sempre e inesorabilmente un abitatore del mondo e del suo dolore. E da tale mondo e da tale dolore caverà gli elementi per elevarsi sopra di essi e illuminarli di intendimento e poesia.
Quindi, se Pessoa professava che il poeta è un “fingitore”, altrettanto vero è che un romanziere è un “vivitore”. Non importa in quale epoca, in quale contesto e per quale durata, ma ogni scrittore degno di questo nome è sempre stato un viaggiatore o addirittura un esule. Orwell a Parigi e Londra, gli altri ovunque fosse depositato il dolore del mondo e richiesta l’adesione necessaria per assimilarne il linguaggio, il senso, le risonanze e le implicazioni.
Inutile stilarne la lista: romanzieri sedentari, semplicemente, non ne esistono. Quando redigono i loro testi, certo, da qualche parte devono sedersi: ma per il resto scrivere è viaggiare, partecipare e soffrire del mondo. E in questo modo imparare la grammatica dell’esistenza, e solo in un secondo momento restituirla al mondo in forma di creazione. Imparare ciò che nessuna scuola può insegnare se non nel tempo rovente dell’esperienza, del patimento, della disperazione, dell’attesa e del pericolo: cioè, in una parola, del pronunciarsi del mondo.