Letteratura

Gesualdo Bufalino

La scrittura come lenta e dotta sedimentazione

  • 15.11.2020, 00:00
  • 31.08.2023, 10:54
Bufalino
Di: Marco Alloni 

Il mio ricordo di Gesualdo Bufalino risale ai lontani tempi universitari. Allora il rigore critico degli studenti di letteratura italiana contemporanea non faceva sconti: se eri un grande scrittore lo eri soltanto qualora ti iscrivevi nel solco della migliore tradizione occidentale. E a Bufalino non si sapeva bene se questo merito potesse essere riconosciuto o meno.

Ricordo anzi che i detrattori usavano ripetere che il grande pregio di Bufalino fosse nello stesso tempo il suo limite maggiore: aver anteposto – come si diceva allora, un po' pomposamente – la “questione stilistica a qualsiasi altra questione narrativa”. Questi stessi detrattori sottolineavano con una certa frettolosa asprezza: “Laddove in quasi ogni pagina di Bufalino compaiono almeno dieci termini che il lettore comune non è in grado di intendere, significa che nella sua prosa c’è qualcosa che non va. O se va, va nella direzione di una tale subordinazione della narrazione alla finezza formale da pregiudicare la limpidezza del dettato”.

Poi con gli anni queste rigidità apodittiche si sono stemperate, e di Bufalino siamo più o meno tutti riusciti a riconoscere che, manierismo o meno, è comunque stato un maestro decisivo. Se non proprio nel solco del grande romanzo europeo o occidentale, certamente in quello della produzione narrativa italiana e della prestigiosa letteratura siciliana: da Verga a Pirandello a Sciascia a Consolo fino ad arrivare (anche se allora non era ancora emerso) al funambolico Camilleri.

Un autore che “ha letto tutti i libri” (come sostenevano a suo tempo i critici più appassionati) e ha esordito con il suo primo romanzo, Diceria dell’untore, una volta superati i sessant’anni, e che nella sua produzione ha accumulato libri essenziali, vale infatti almeno una considerazione di plauso: non può essere uno scrittore improvvisato e non può essere uno scrittore senza retroterra. Al contrario, se qualcosa staglia Bufalino al di sopra di moltissimi suoi omologhi è proprio la sua autenticità di narratore dotto e sapiente (amante tra l’altro del cinema, degli scacchi e della musica jazz). Un fatto che fino a due o tre decenni fa veniva considerato imprescindibile per intraprendere la carriera di scrittore o di poeta, ma che oggi sembra passato di moda, al punto che chiunque abbia qualche “ombelicale” questioncella da raccontare pare legittimato a prendersi l’onore – quasi mai l’onere – di darla alle stampe.

E qui si gioca la grandezza di Bufalino: egli fu e resta, al contempo, un autore profondamente “anti-ombelicale” e un autore profondamente “terraneo”. La sua prosa barocca e raffinata, al limite della preziosità del lavoro da orafo, diffonde infatti non tanto un personale bisogno di esibire questo o quel virtuosismo – che pure aleggiano tra le pagine – ma di testimoniare un clima sociale e culturale che in quella prosa si rispecchia totalmente: quello della sua Sicilia storica e immaginifica.

Una Sicilia nella quale visse – a Comiso, per la precisione – praticamente per l’intera vita, ma che in un certo senso è anche una grande allegoria del mondo.

Il suo libro più celebre, premiato al Campiello, Diceria dell’untore, è l’estremo risultato di questa rappresentazione. E in tempi di Coronavirus è a suo modo un libro addirittura profetico. Si tratta di un romanzo che narra, secondo le stesse parole di Bufalino, un “apprendistato alla morte” nel sanatorio di Rocca (in prossimità di Palermo) durante il primo dopoguerra. E quel che emerge è il grandioso senso di impotenza, di isolamento, di profondità morale e spirituale che caratterizza l’uomo contemporaneo – nella fattispecie siciliano – a confronto con i grandi temi del suo tempo.

Si può dunque dire che Bufalino ha tracciato e ripreso una linea di scrittura che all’improvvisazione concede soltanto qualche minimo scampolo. Il resto è sedimentazione, accumulo sapienziale, cultura, ricercatezza stilistica e devozione alla bellezza. In una parola: letteratura nel senso più ampio e forse desueto che dovrebbe avere.

E a cento anni dalla sua nascita – il 15 novembre 1920 – ricordare l’importanza di quella che può essere chiamata la “sacralità di scrivere” è forse più che mai necessario. In questi cento anni “di solitudine” pochissimi autori hanno infatti dedicato alla letteratura, alla poesia e al romanzo la stessa ardente e meticolosa passione dell’autore di Comiso.

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