Cosa c’è “in principio”, il “verbo” oppure l’“azione”? Per il Faust di Goethe, «in principio è l’azione» e cioè lo “Streben”, la tensione verso tutto quanto trascende il dato biologico consistente nel nascere vivere e morire: «Grigia è ogni teoria, verde è invece il dorato albero della vita».
Parole bellissime, senza alcun dubbio, che tuttavia sembrano provenire non tanto dai primi decenni del diciannovesimo secolo, ma da una lontana era geologica, perché l’Ottocento con le sue “magnifiche sorti e progressive” e il “secolo breve” degli aborti ideologici (il Novecento coi suoi orrori e le sue nefandezze), con l’aggiunta del tutt’altro che glorioso inizio del secolo ventunesimo, ci hanno purtroppo insegnato che la verità è un’altra: la teoria è sicuramente grigia, però l’albero della vita non è dorato (e nemmeno verde). E in principio non ci sono né il verbo, né l’azione.
Non a caso, proprio leggendo Goethe, Gustave Flaubert aveva esclamato: «Ecco un uomo! Ma aveva tutto, lui, tutto per sé!». Flaubert, invece, sapeva di non avere nulla, nemmeno se stesso, si guardava allo specchio, scoppiava a ridere ed esclamava col suo possente accento normanno: «Je suis mystique et je ne crois à rien!».
Per Flaubert -che è stato il primo a comprenderlo- e soprattutto per noi “venuti dopo”, definitivamente affrancati dalle mitologie delle “magnifiche sorti” e della perfettibilità umana ma persi in altre prigioni e altri labirinti, la domanda su cosa ci sia “in principio” non ha più alcun senso. Perché ormai sappiamo che “in principio” c’è una sorta di insondabile fatalità biologica che provoca una scissione tra la mente e il cuore. Niente può sanarla, né l’azione, né la parola.
Tutto, quindi, sia le azioni che le parole, diventa chiacchiera, luogo comune. Lo ha espresso in maniera molto penetrante un lettore di spicco come Claudio Magris parlando de “L’educazione sentimentale”, che non è soltanto uno dei vertici della narrativa di Flaubert ma anche l’opera che maggiormente si avvicina alla celebre utopia del “libro su niente”: «Il soggetto inesistente o quasi invisibile del progettato libro su niente è anche il vuoto echeggiante di chiacchiere sul quale sono costruite la civiltà e la società, il nulla su cui si inarcano e volteggiano le parole e le fedi, i baldanzosi programmi e i tronfi ideali; è il terreno mancante sul quale si basano le città, gli stati e le chiese, le verità e le filosofie; è quell’inesistenza di un fondamento che trasforma l’intera realtà in uno di quegli enti pubblici che sopravvivono alle esigenze per le quali erano stati istituiti e continuano a funzionare, perfettamente e senza scopo». Il niente, per Flaubert, coincide con lo scollamento tra le proiezioni immaginative e la realtà effettuale, tra la Vita e la vita, con un grande vuoto riempito di bêtise, di stupidità: «La terra ha dei limiti, ma la stupidità umana non ha confini», ha scritto in un passo di una lettera al suo “figlioccio” ed erede letterario Guy de Maupassant. Per poi aggiungere, qualche riga dopo: «Ed è questa l’infinita miseria del tutto. Menzogna durante la giornata e sogno durante la notte, ecco l’uomo».
Il suo fraterno amico Maxime Du Camp, complice e compagno di scorribande giovanili e altre avventure non propriamente riferibili, che ne rievocò la figura in alcuni capitoli dei “Souvenirs Littéraires”, ha proposto una suggestiva chiave di lettura, sostenendo tra l’altro che Flaubert, superficialmente etichettato (e frainteso) come “realista”, è stato invece un visionario e il più grande dei cosiddetti “scrittori miopi”, quelli che «vedono per particolari, studiano ogni contorno, danno importanza a ogni cosa perché ogni cosa appare loro isolata. Intorno ad essi c’è una sorta di nube, contro la quale si distacca, con una proporzione che sembra eccessiva, l’oggetto percepito; si direbbe che abbiano nell’occhio un microscopio dove tutto si ingrandisce».
Un’ulteriore chiave di lettura, molto originale e illuminante, è quella fornita da un’altra lettrice di spicco, Willa Cather, che ha parlato di Flaubert come del massimo esponente del genere del “roman démeublé”, dove non c’è nulla di inutilmente accessorio e tutto converge nella visione dell’essenziale. Nel “roman démeublé” il realismo smette di essere tale, vale a dire un mero catalogo di fatti e oggetti, e diventa parte dell’esperienza: «Se il romanzo è una forma d’arte immaginativa, non può essere allo stesso tempo una forma vivida e brillante di giornalismo. Dal flusso brulicante, baluginante del presente deve selezionare la materia eterna dell’arte». Oltre le cristallizzazioni e sedimentazioni del canone e delle storie letterarie, che insistono nel presentarlo come maestro e capostipite del realismo ottocentesco, è principalmente quale “scrittore miope” e massimo esponente del “roman démeublé” che bisogna inquadrare Flaubert a due secoli dalla nascita (era nato il 12 dicembre 1821 ed è morto l’8 maggio 1880). In caso contrario, si rischia di soffocarlo nell’ambra del mito e della leggenda, o peggio ancora lo si confina nel recinto dorato dei classici: grandissimi, certo, ma insapori e soprattutto indolori. Flaubert è stato tutt’altro.
E’ vero infatti che nelle sue opere, nella costante e quasi mistica ricerca del “mot juste”, la “parola giusta” che sigilla e sancisce l’aderenza della scrittura al reale («lo stile è sotto le parole, oltre che nelle parole», ha scritto in una lettera all’odiamata Louise Colet), c’è talmente tanta “realtà” che sembra quasi ovvio parlare di “realismo” (soprattutto nel caso di “Madame Bovary” e de “L’educazione sentimentale”, ma in ultima analisi anche nel caso di “Un cuore semplice” e “Bouvard e Pécuchet”). Ma sotto lo sguardo dello “scrittore miope” la “realtà” stessa, proprio perché ingrandita, comincia a screziarsi, si sfrangia, si stempera, si fa evanescente e infine scompare. Si capisce quindi perché Flaubert, in un passo di una lettera a Maxime Du Camp che ha tutti i crismi di un programma poetico, abbia scritto: «Io non cerco il porto, ma il mare aperto. La vita è ricerca di certezze illusorie, l’arte è rappresentazione dello spettacolo tragico del destino umano». Ma non solo: si capisce anche perché un suo ammiratissimo lettore, Franz Kafka, aveva definito “L’educazione sentimentale” «il libro di ogni incanto e di ogni disillusione», sognando di leggerlo a voce alta, dalla prima all’ultima pagina, in una grande sala piena di pubblico. Perché in tutta l’opera di Flaubert, ma principalmente ne “L’educazione sentimentale”, la forma e lo stile producono un ritmo impercettibile e vagamente ipnotico che è il ritmo stesso della vita e affonda le proprie radici negli abissi dell’atemporalità e della materia, evocando la nostalgia per il tutto e insieme -e soprattutto- dicendo l’amara percezione del nulla, di un tempo che non è tempo perché in ogni suo istante è già perduto e morto nelle voragini del passato e della storia: «C’è un’amarezza in tutto, un’eterna staffilata nel mezzo dei nostri trionfi, e la desolazione stessa è nell’entusiasmo», ha osservato in una lettera a Louise Colet.
In ogni scritto di Flaubert, dalle opere giovanili pubblicate postume passando per “Madame Bovary”, “L’educazione sentimentale”, il “realismo” archeologico di “Salambò” e “La tentazione di Sant’Antonio”, fino al grande progetto sulla stupidità umana concretizzatosi solo in parte in “Bouvard e Pécuchet”, nello “Sciocchezzaio” e nel “Dizionario dei luoghi comuni”, c’è come l’attesa -scettica e disillusa- di una rivelazione che non viene. Ecco perché alla povera Emma Bovary la vita appare come «un corridoio buio con in fondo una porta chiusa», mentre per Frédéric Moreau ne “L’educazione sentimentale” tutto sembra coagularsi intorno a quello che per Proust sarà poi il “temps perdu” e nel suo caso specifico è un banalissimo mazzo di fiori abbandonato in gioventù, per timidezza, all’ingresso di un bordello: «E’ quello che abbiamo avuto di meglio…», dice all’amico Deslauriers nelle ultime righe del romanzo. E l’amico risponde: «Sì, può darsi davvero, è quello che abbiamo avuto di meglio…».
«Fin da giovanissimo ho avuto un completo presentimento della vita. Era come un odore di cucina nauseabonda che sfugge da una fessura. Non c’è bisogno di averne mangiato per sapere che fa vomitare», ha confidato nel 1846 a Maxime Du Camp. Gustave Flaubert, il “realista” che odiava la “realtà”, ha detto più volte che è inutile cercarlo nelle sue opere pubblicate, dove è presente ma invisibile, «come un Dio nella creazione». E in effetti lo si può cercare all’infinito, non lo si troverà mai.
Lo si può invece trovare, con un’evidenza quasi raggelante, in un brano di un’opera pubblicata postuma, il diario di un viaggio in Italia e in Svizzera compiuto nel 1845, all’età di ventiquattro anni, quando non aveva ancora pubblicato una sola riga. E’ il racconto di un sogno, ma con ogni probabilità è anche la più precisa descrizione che un autore abbia mai dato di se stesso e della sua opera (e forse di tutto il resto). E non c’è nemmeno bisogno di scomodare il dottor Freud: «Ho sognato che ero in una foresta tutta piena di scimmie. Mia madre passeggiava con me. Più ci addentravamo, più ne venivano - ce n’erano sui rami, che ridevano e saltavano, molte venivano invece sul nostro cammino, sempre più grandi, sempre più numerose. Mi guardavano fisso, e alla fine ho cominciato ad avere paura. Si affollavano intorno a noi, facevano cerchio, poi una ha voluto carezzarmi e mi ha preso la mano. Le ho tirato un colpo di fucile alla spalla e l’ho fatta sanguinare: ha cacciato delle urla spaventose. Mia madre allora mi ha detto: “Perché ferisci la tua amica? Cosa ti ha fatto? Non vedi che ti ama? Come ti assomiglia!”. E la scimmia mi guardava. Il suo sguardo mi ha lacerato l’anima. Poi mi sono svegliato».