Thomas Mann disse una volta che ci sono temi “disperatamente tedeschi”, con una voluta accentazione sull’avverbio “disperatamente”, che in tedesco è “verzweifelt” e nella sua etimologia, prima ancora della disperazione, esprime il dubbio, il rovello, la difficoltà di sanare la scissione (latamente umana ma tipicamente tedesca, o se si vuole teutonica) tra il disordine della vita e le irrinunciabili ma spesso compromissorie istanze ordinatrici della coscienza.
Il riferimento è doveroso e obbligato, perché tutto il Novecento tedesco è imprescindibile dalla figura e dall’eredità culturale dell’autore de “I Buddenbrook”. Uno dei massimi letterati tedeschi del secondo dopoguerra, il critico Marcel Reich-Ranicki, che trascorse parte della giovinezza nel ghetto di Varsavia e sfuggì per poco alla morte in lager, lo ha espresso in maniera molto penetrante in un passo della propria autobiografia, con una suggestiva nonché inquietante contrapposizione dialettica: «Se dovessi citare due nomi che nel ventesimo secolo simboleggiano la Germania, non avrei esitazioni: Adolf Hitler e Thomas Mann. Tuttora questi due nomi incarnano i due lati, le due possibilità di ciò che è tedesco. E se la Germania volesse dimenticare o rimuovere una sola di queste due possibilità, le conseguenze sarebbero disastrose». Ma a dire il vero c’è anche una terza possibilità, quella incarnata da Heinrich Mann, il fratello maggiore di Thomas. L’attrito tra le differenti possibilità incarnate da Heinrich e Thomas ha provocato quello che le storie letterarie designano col termine “Brüderkonflikt”, “conflitto tra fratelli”: un dissidio (peraltro mai totalmente ricomposto sul piano personale) che esprime due differenti visioni della vita e della civiltà.
Il “Brüderkonflikt”, peraltro già latente, scoppia all’inizio della prima guerra mondiale e si acuisce nel 1918, quando Thomas dà alle stampe le “Considerazioni di un impolitico”, un libro che egli stesso in seguito definirà “un capolavoro sbagliato” senza tuttavia ripudiarlo, se non altro perché costituisce una tappa fondamentale nella sua evoluzione umana e spirituale. Thomas costruisce le proprie argomentazioni partendo dall’antitesi tra “Kultur” e “Zivilisation”, due termini che in tedesco designano lo stesso concetto, quello di “civiltà”, ma lo denotano con due sfumature completamente differenti. Agli occhi di Thomas la vera civiltà è la “Kultur” intesa come un patrimonio esclusivamente tedesco, fatto di ethos aristocratico, senso ideale più che politico della nazione, prussiano spirito di sacrificio e rigore formale di ascendenza luterana. E’ anche il patrimonio originario del classicismo, filtrato attraverso la scuola romantica, l’opera di Goethe, la musica di Wagner e il pensiero di Schopenhauer e Nietzsche.
La “Zivilisation”, propugnata dal fratello Heinrich sulla scorta di Zola e del naturalismo francese, è invece il marchio distintivo delle democrazie politiche europee, in particolare della Francia e della Gran Bretagna. Thomas vede nella “Zivilisation”, troppo duttile e compromissoria, la parodia dell’autentica civiltà, perché si traduce nel mero progresso materiale, nella sopravvalutazione dello spirito raziocinante e della logica affaristica, il tutto nascosto sotto la foglia di fico della retorica sociale e umanitaria. Il conflitto, che prenderà forma in un ampio, serrato e talora drammatico scambio epistolare, si può leggere anche in versione italiana in un volume delle Edizioni Archinto dal titolo “La montagna del disincanto”.
Dal punto di vista letterario, Heinrich era meno dotato rispetto al fratello minore, ma nel conflitto si rivelò senza dubbio più capace di leggere e interpretare la realtà, meno legato a settarismi, schemi ideologici e idee preconcette. Ecco ad esempio cosa scrive a Thomas in quella che con ogni evidenza è la lettera più importante, datata 5 gennaio 1918: «Ora stanno continuando a morire. Ma tu che hai approvato la guerra, e continui a farlo, e critichi il mio atteggiamento, tu che mi accusi di avere un atteggiamento assolutamente scellerato, avrai, se Dio vuole, ancora quarant’anni di tempo per scrutare in te stesso, e magari per affermarti. Voglio sperare che arriverà l’ora in cui vedrai uomini, non ombre. E, con essi, anche me».
In effetti, Thomas ebbe ancora quarant’anni di vita nel corso dei quali scrutò in sé stesso. Ma non solo: dal “conflitto tra fratelli” uscirà un Thomas Mann che nella “Montagna incantata” prenderà definitivamente congedo dalla vecchia Europa e in seguito, negli anni dell’esilio in Svizzera e negli Stati Uniti, diventerà l’ultimo ed estremo rappresentante dell’“altra” Germania, quella non riconducibile alla follia hitleriana e alla “peste bruna”.
Forte di questo ruolo, e della consapevolezza più volte ribadita di essere un rappresentante e non un martire, alla fine del secondo conflitto mondiale Thomas rimodella le proprie convinzioni e indica infine nella democrazia l’unica possibilità di salvezza per il popolo tedesco e il genere umano nella nuova epoca che si sta aprendo. A patto, però, di non considerare la democrazia come un dato acquisito una volta per tutte, e nella speranza, purtroppo profeticamente vana, che l’essere umano possa infine cambiare: «L’uomo è ormai tale -ha scritto infatti in un saggio dal titolo “La democrazia che verrà”- che non si trova del tutto bene sulla terra in nessuna situazione e in nessuna circostanza. Nessuna forma di vita gli si confà o lo appaga perfettamente. Perché sia così, perché per questa creatura terrena rimanga sempre un resto di insufficienza, di insoddisfazione e di sofferenza, è un mistero».
Heinrich e Thomas: così vicini, così lontani, così disperatamente tedeschi, e in fondo così disperatamente umani. E’ anche per questo motivo che il loro conflitto ci sembra così tragico e attuale: perché entrambi avevano in parte ragione e in parte torto, e soprattutto perché oggi dobbiamo fare i conti con la fine dell’idea di civiltà intesa sia come “Kultur” che come “Zivilisation”. Forse, con la fine dell’idea stessa di “civiltà”.