La questione della memoria letteraria -o per meglio dire della poca memoria letteraria- è molto importante e anche piuttosto scivolosa, soprattutto in un’epoca che ha la presunzione di memorizzare tutto ma in realtà tende a ricordare poco, in maniera spesso selettiva e perfino strumentale. Se ad esempio si prende in considerazione il contesto letterario svizzero, più nello specifico l’area di lingua tedesca, si nota che non sono pochi gli scrittori del Novecento che dopo la morte sono caduti nell’oblio. Va perfino peggio ai classici dell’Ottocento, che rischiano davvero di diventare dei semplici nomi, conservati nell’ambra del mito e della leggenda, autori di libri che pochi conoscono e quasi nessuno legge.
Il caso di Hugo Loetscher (nato il 22. Dezember 1929), scrittore, giornalista, intellettuale e uomo di cultura nel senso più ampio del termine, originario di Escholzmatt nell’Entlebuch ma nato e vissuto a Zurigo, dove è morto nell’agosto 2009 all’età di 79 anni, costituisce fortunatamente un’eccezione. Non solo perché a oltre dieci anni dalla morte Loetscher è ancora molto presente, letto e apprezzato, ma anche e soprattutto perché è proprio adesso, con la giusta distanza critica, che si comincia a valutare la sua opera in tutto il suo valore e in tutta la sua portata, fuori dal cono d’ombra costituito a suo tempo dalla presenza di due giganti come Frisch e Dürrenmatt.
Erano infatti tempi di settarismi, forzature ideologiche e divisioni molto nette, anche in ambito culturale e letterario: tra gli scrittori svizzeri di lingua tedesca c’erano i “cani sciolti” come Nizon, i “frischiani” doc come Bichsel, Steiner e Federspiel, solo per ricordare i nomi più famosi, e infine c’erano i “dürrenmattiani”, con Loetscher che veniva considerato il più “dürrenmattiano” dei “dürrenmattiani”. Il che sostanzialmente è vero, perché Loetscher e Dürrenmatt erano legati da una profonda amicizia, ma anche perché il mondo poetico di Loetscher, la sua visione dubitosa e spesso grottesca della realtà e il suo approccio alla scrittura debbono molto a Dürrenmatt. Bisogna tuttavia aggiungere che Loetscher ha sfruttato in maniera intellettualmente onesta la scia di Dürrenmatt, ritagliandosi fin da subito uno spazio e quindi una posizione molto personale, si potrebbe quasi dire uno “stile Loetscher”. Uniti in tutto, i due erano infatti amichevolmente divisi nientemeno che sulla vita e su come circoscriverla: “sinnlos”, “senza senso”, per Dürrenmatt, che proprio nella mancanza di senso ravvisava l’unica possibile libertà; “sinnleer”, “vuota di senso”, per Loetscher, che da parte sua ravvisava nel tentativo di riempire il vuoto una sorta di imperativo categorico e il senso stesso della vita.
Lo “stile Loetscher” è già parzialmente delineato e riconoscibile nel primo romanzo del 1963, “Abwässer” (letteralmente “Acque di scolo”), un’ironica e simpatica critica delle ideologie in un periodo nel quale le ideologie stesse dettavano l’agenda della quotidianità (da una parte e dall’altra della cortina di ferro, e per molti versi, anche se in maniera indiretta, anche nella neutrale Svizzera). Il narratore esordiente Loetscher ha infatti un’intuizione assolutamente geniale: raccontare cosa avviene o non avviene nelle chiaviche di una grande città durante e dopo una rivoluzione che sovverte l’ordinamento politico. Il racconto, o meglio il “Bericht”, il resoconto, come dice il sottotitolo, viene fatto da un ispettore delle fogne che deve giustificare il proprio comportamento al cospetto del nuovo governo. Anche se in realtà non deve giustificarsi di nulla, perché le ideologie non penetrano fin nell’oscurità e nelle tenebre delle cloache: «Nel mio registro non è annotato nulla di particolare. Veramente devo dire che per un momento rimasi interdetto quando all’ora di pranzo l’acqua di scolo non si ingrossò. Ma come avrei potuto, basandomi sul fatto che non si cucinava, che nessuno si lavava le mani e si metteva a tavola e che i piatti non venivano rigovernati – come avrei potuto, dico, dedurre da simili fatti che al di sopra aveva avuto luogo una rivoluzione?».
La metafora è evidente: le fogne non sono altro che il lato oscuro e rimosso di quanto si verifica ogni giorno alla superficie, alla luce del sole, indipendentemente dal governo che esercita il proprio potere. Le grandi contrapposizioni ideologiche, che oggi ci appaiono né più né meno uno sbiadito ricordo ma in realtà hanno segnato e guastato a fondo il cosiddetto “secolo breve”, trascurano un particolare di non poca importanza: l’essere umano, l’animale uomo con tutte le sue miserie e contraddizioni da questa e dall’altra parte della barricata, o per essere più precisi sopra o sotto la superficie, nelle città e sotto le città, dove sia da una parte che dall’altra ci sono le fogne, e dove le ideologie non arrivano. Una metafora, o se vogliamo un messaggio realistico, disincantato e fortemente antiideologico che nell’iperideologico 1963 dispiacque a molti, per esempio in Italia, dove il romanzo doveva essere pubblicato da Einaudi, ma non se ne fece nulla. Sarebbe poi apparso quasi quarant’anni dopo, pubblicato dall’editore Casagrande di Bellinzona col titolo “L’ispettore delle fogne”.
Se “L’ispettore delle fogne” e altre prove narrative degli anni Sessanta si muovono ancora nel solco tracciato da Dürrenmatt, il grande romanzo del 1975, “L’Immune”, si presenta come una narrazione assolutamente autonoma e costituisce il vertice dell’intera produzione di Loetscher, che nelle sue densissime pagine, col passo del narratore di razza, ha creato il tipo sociologico e antropologico dell’Immune, l’intellettuale libero dai settarismi e dalle gabbie ideologiche e quindi finalmente in grado di osservare la realtà in maniera più libera, profonda e penetrante. Se proprio si vuole persistere nel paragone, si potrebbe dire che Loetscher è un Dürrenmatt più cosmopolita (ma di un cosmopolitismo intriso di scettica e scanzonata ironia) e per molti versi meno apocalittico. Ma non solo: Loetscher è stato il primo a portare la letteratura svizzera, in quel periodo, al di fuori delle secche ideologiche e delle strettoie settarie. E’ questo il motivo di fondo della sua attualità, insieme al valore oggettivo delle sue opere. Loetscher è stato infatti uno dei massimi rappresentanti di quella corrente letteraria per la quale il germanista Peter von Matt ha coniato l’espressione “patriottismo critico”, ma non è stato soltanto un “patriota critico” che ha descritto con ironia i vizi e talune mitologie della patria elvetica. E’ stato anche un viaggiatore instancabile e sempre curioso, sempre attento all’altro e al diverso, soprattutto in Brasile e nel mondo ispano-americano, negli Stati Uniti e nel sud-est asiatico, non da ultimo nell’amatissimo Portogallo.
Tra i suoi libri, oltre ai resoconti di viaggio e ai già ricordati “L’ispettore delle fogne” e “L’Immune”, merita una menzione particolare la raccolta di brevi scritti “Se Dio fosse svizzero”, perché si addentra con gustosa e godibilissima “légèreté” in una certa mentalità elvetica espressa simbolicamente nel “Waschküchenschlüssel”, la “chiave della lavanderia” alla quale fa riferimento il titolo dell’edizione originale. Infine non bisogna dimenticare l’autobiografia “War meine Zeit meine Zeit”, che per ironia della sorte uscì nelle librerie proprio il giorno della morte dell’autore. Loetscher racconta in primo luogo la propria vita, dai ricordi “prenatali” dell’Entlebuch all’infanzia ad Aussersihl, dalla giovinezza nei quartieri operai di Zurigo fino ai viaggi in tutto il mondo, ma indirettamente racconta anche molte vicende del Novecento elvetico. E’ un libro di enorme spessore letterario e documentario, la confessione di un ironico cosmopolita costantemente alla “scoperta” (nel senso dell’“Entdecken”, ma anche del goethiano “Vorfinden”) di se stesso, del mondo e della Svizzera.
“La scoperta della Svizzera”, non a caso, è il titolo di un racconto della metà degli anni Ottanta che esprime in poche pagine il senso di tutta la sua opera. Lo spunto per il racconto fu un’esperienza un po’ straniante che Loetscher aveva vissuto alcuni anni prima e amava molto raccontare anche a voce, agli interlocutori e intervistatori. Nei tardi anni Settanta aveva tenuto una lezione sulla Svizzera in una scuola superiore in Colombia, ma alla fine una giovane studentessa gli aveva mosso un’obiezione: «Sì, d’accordo, lei ci ha detto molte cose della Svizzera, però non ci ha detto chi ha scoperto la Svizzera!». Una domanda ovviamente assurda per un europeo e per uno svizzero, ma in linea di principio tutt’altro che assurda per tutti coloro che vivono in un continente che è stato scoperto. Al che Hugo Loetscher, ironico cosmopolita e straordinario causeur, chiudeva il racconto con la sua indimenticabile risata e diceva: «Beh, insomma, a quel punto mi è venuto un dubbio… Ma siamo proprio sicuri che la Svizzera sia stata scoperta?».