Letteratura

I Mann

Il “celebre sconosciuto” e l’“amazing family”

  • 3 febbraio 2022, 00:00
  • 14 settembre 2023, 09:19
La famiglia Mann.jpg
Di: Mattia Mantovani 

Per definire la vicenda umana e artistica di Heinrich von Kleist, il grande narratore e drammaturgo tedesco morto suicida a soli 34 anni nel 1811, Robert Walser si servì di un ossimoro estremamente efficace. Soffermandosi sulla vita breve e infelice di Kleist (nel quale individuava una sorta di predecessore e alter ego), e su quanto di quella vita era penetrato nelle opere, Walser coniò infatti la definizione “un celebre sconosciuto”, che indicava fino a che punto la grande celebrità di Kleist, quasi interamente postuma, fosse inversamente proporzionale alla poca conoscenza dei motivi più profondi che avevano spinto lo stesso Kleist al gesto estremo del suicidio.

La definizione “celebre sconosciuto” è utile anche per circoscrivere la vicenda umana e artistica di un altro grandissimo scrittore tedesco (anzi, lo scrittore tedesco per eccellenza, insieme a Goethe) come Thomas Mann, che si è raccontato in varie forme nelle opere e in maniera più diretta nei diari pubblicati postumi, ma in ultima analisi rimane un mistero piuttosto impenetrabile.

Lo si è capito soprattutto a partire dal 2001, anche in virtù della giusta distanza critica, quando il primo canale della televisione tedesca trasmise in prima serata una cosiddetta “docu-fiction” sulla famiglia Mann (“Die Manns - Ein Jahrhundertroman”), che fece registrare impensabili record di ascolti e suscitò nuovo interesse non solo per babbo Thomas, detto “Il Mago” (i figli gli si rivolgevano in questo modo), ma anche per la storia complessiva della famiglia, che incarna per molti versi le grandezze e gli abissi del Novecento tedesco.

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I Mann: un'amazing family (1./2)

Laser 21.01.2019, 09:00

  • Keystone

Perché se Thomas Mann, insieme a Goethe, è lo scrittore tedesco per eccellenza, la famiglia Mann nel suo complesso, come ha osservato il critico Marcel Reich-Ranicki, è la famiglia tedesca per eccellenza, almeno per quanto riguarda il “secolo breve”: Julia e Carla, le due sorelle di Thomas, morte entrambe per suicidio; il dissidio di portata epocale tra Thomas e il fratello Heinrich sulla differenza tra la “cultura” tedesca e la “civilizzazione” europea; la perdita della patria e i lunghi anni di esilio (un esilio dorato, senza dubbio, nel “buen retiro” di Pacific Palisades in California, ma pur sempre un esilio); un figlio di spiccata intelligenza, Golo, autore di penetranti studi storici, che visse la morte del padre «come una sofferenza e insieme un trionfo», due figli culturalmente dotatissimi, di raffinata sensibilità ma più o meno frustrati dal rigido e limitante ethos paterno (Erika e Klaus: lei, nata nel 1905 e morta nel 1969, dopo il fallito matrimonio con l’attore Gustaf Gründgens ebbe numerose relazioni saffiche; lui dichiaratamente omosessuale e morto suicida a soli 43 anni nel 1949); due figlie artisticamente meno dotate che hanno profondamente sofferto la presenza del padre (la negletta Monika e la pur amatissima Elisabeth), e infine il figlio minore Michael, mai amato e anch’egli, quasi a chiudere un cerchio, morto suicida nel 1977, dopo la pubblicazione dei diari nei quali il padre -che pure ha scritto pagine magnifiche sul “disordine e dolore precoce” dell’infanzia- aveva messo nero su bianco la propria mancanza di amore e perfino di affetto nei suoi confronti. Un po’ come Goethe e la Gretchen del “Faust”, a dimostrazione del fatto che l’autore è l’opera, ma lo scrittore non è l’uomo. Nella migliore delle ipotesi, è semplicemente l’immagine stilizzata di quest’ultimo.

Aveva ragione il figlio ribelle Klaus, insomma, quando parlò della famiglia Mann, non senza una certa ironia, come di un’“amazing family”: «Che famiglia straordinaria è la nostra! In futuro si scriveranno libri su di noi, e non solo su ciascuno di noi». La docu-fiction, della quale è stata pubblicata anche l’ampia sceneggiatura, costituisce il perfetto compimento della profezia di Klaus e si è rivelata molto interessante anche perché ha contribuito alla riscoperta e alla rivalutazione -poi completate da una recente mostra alla Biblioteca Comunale di Monaco di Baviera- dell’opera della primogenita Erika, che per troppo tempo dopo la morte è stata ricordata un po’ superficialmente come la custode dell’opera e della memoria del padre. Più ancora del fratello Klaus, col quale in giovinezza aveva compiuto un lungo “viaggio intorno al mondo” poi raccontato nell’omonimo libro, Erika possedeva un talento estremamente versatile, che si rivelò dapprima sulla scena con la creazione del leggendario cabaret della “Pfeffermühle” (“Il macinapepe”), in una Monaco già intaccata dalla “peste bruna”, e in seguito, durante l’esilio negli Stati Uniti, nell’ambito del giornalismo, della narrativa e della saggistica.

Ed è proprio al suo talento come narratrice e saggista che si devono due libri “non inutili”, per riprendere una celebre definizione coniata da Primo Levi. Il primo è “La scuola dei barbari”, basato su testimonianze raccolte in Svizzera dalla viva voce degli emigranti tedeschi e pubblicato a New York nel 1938, che rappresenta uno studio per molti versi insuperato dei meccanismi della propaganda nazista, soprattutto in ambito pedagogico. Il secondo, “Quando si spengono le luci”, pubblicato due anni dopo sempre a New York, è il racconto quasi in tempo reale della vita, o meglio della non-vita, sotto il giogo della dittatura hitleriana, con un’analisi davvero imprescindibile della doppia natura faustiana dell’anima tedesca. Non bisogna infine dimenticare, sempre nel 1940, la pubblicazione di “The Other Germany”, “L’altra Germania” (noto anche col titolo “Escape to Life”), il libro scritto a quattro mani col fratello Klaus nel tentativo di spiegare che la grande tradizione culturale tedesca non aveva nulla a che vedere con gli orrori e le nefandezze di Hitler e dei suoi sgherri. E’ tuttavia interessante notare come babbo Thomas, in un saggio scritto al ritorno in Europa dopo la fine della guerra, abbia fornito una lettura molto differente della questione, ricostruendo un percorso piuttosto impervio che dal “demoniaco” Lutero, passando attraverso il “Faust” di Goethe, il romanticismo e la musica di Wagner, arriva fino a Hitler: «No, non vi sono due Germanie, l’una buona e l’altra malvagia, ma vi è una Germania soltanto, il cui bene per una perfidia del diavolo degenerò in male. La Germania malvagia è quella buona finita male, è quella buona nella sventura, è il bene precipitato nella colpa e nella rovina». Altro che “amazing family”: nemmeno l’esilio e la guerra erano riusciti a comporre il dissidio di fondo tra il padre e i due figli artisticamente più dotati.

E’ quindi lecito chiedersi se esista una verità vera relativamente a Thomas Mann, ma è difficile rispondere. Nelle quasi dieci ore della docu-fiction (che alterna immagini d’epoca e scene interpretate da attori di professione, tra i quali il bravissimo e molto somigliante Armin Müller-Stahl nel ruolo di Thomas), l’autore dei “Buddenbrook” e della “Montagna incantata” si rivela anzitutto per quello che è realmente stato nella letteratura del Novecento, vale a dire l’ultimo grande esponente (“testimone” e non “protagonista”, per sua stessa ammissione) della “Kultur” intesa come quella “civiltà” che Mann aveva recepito dalla cultura tedesca dell’Ottocento

Ma accanto a questo Mann “ufficiale”, la docu-fiction mostra anche e soprattutto (e per la prima volta con quasi impietosa immediatezza) il Mann poco “ufficiale” e molto “demoniaco” venuto alla luce intorno alla metà degli anni Settanta, dopo la pubblicazione dei diari, per i quali era stato posto un divieto di pubblicazione della durata di vent’anni dalla morte. Nei diari, che nel loro insieme vanno a costituire un corpus di oltre diecimila pagine, il grande scrittore compassato, ironico, equilibrato, di una quasi irritante normalità anche nell’accostarsi alla patologia (basti pensare alla vicenda del piccolo Nepomuk nel “Doctor Faustus”), si rivela un uomo fisicamente e psichicamente tormentato, che confessa apertamente le proprie inclinazioni omoerotiche ed è afflitto da continui mal di denti, emicranie e disturbi gastrici di evidente natura psicosomatica, con persistenti crisi depressive -tenute strategicamente nascoste- fatte di «lacrime e angosce», secondo le sue stesse parole.

26:05

I Mann: un'amazing family (2./2)

Laser 22.01.2019, 09:00

  • Keystone

Non si tratta, a dire il vero, di un Mann completamente sconosciuto, perché le sue opere abbondano di accenni a questo lato oscuro. Ma nelle opere tutto è tenuto sotto controllo, gestito con inflessibile fermezza e infine risolto in altissime e plastiche figurazioni artistiche, mentre nei diari la componente oscura e demoniaca si presenta in tutta la sua virulenza, con l’irrazionale e il perturbante che sgorgano senza alcun filtro. Ecco perché Thomas Mann rimane un “celebre sconosciuto” e l’“amazing family” si rivela ben poco “amazing”: perché sotto una superficie apparentemente priva di increspature, l’ultimo grande borghese tedesco e l’ultima grande famiglia borghese tedesca si rivelano oscuri, sfuggenti e in ultima analisi inafferrabili. Più che una famiglia, insomma, quasi una cifra esistenziale, un’immagine simbolica dell’irrisolta dialettica tra repressione e abbandono alla dissoluzione, tra le istanze che sostanziano la vita ma la irrigidiscono e quelle che la liberano ma insieme la dissolvono. Klaus ed Erika lo hanno capito prima e meglio degli altri, e hanno pagato il prezzo più alto: «Siamo figli del tardo capitalismo, -ha scritto Klaus nel 1932 in “Figlio di questo tempo”, la biografia romanzata della sua giovinezza “prima della vita”- siamo gli ultimi, viziati rampolli di una borghesia altamente intellettualizzata. La nostra infanzia protetta è stata sconvolta dalle vicende abnormi e spaventose di questo tempo. Noi non siamo niente, siamo soli col mistero. Solo la paura è con noi. Noi, soli con la paura».

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