Letteratura

Il bestiario di Robert Walser 

Scoiattoli, rondini, orsi, cavalli e “il Gatto”: l’eterna tragicommedia umana vista con gli occhi degli animali

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Robert Walser

Robert Walser.

Di: Mattia Mantovani

Non è casuale la data, non è casuale l’autore. Franz Blei, scrittore e giornalista viennese, nato nel 1871 e morto in esilio negli Stati Uniti nel 1942, che insieme ai colleghi e fratelli spirituali Peter Altenberg e Alfred Polgar ha restituito la fine del “mondo di ieri” nelle minuzie della quotidianità e nei faits-divers della Vienna del tramonto asburgico, pubblica nel 1923 un libro tanto strano quanto divertente, che esprime il tentativo -tipico di quella straordinaria stagione culturale- di ricondurre la disarticolata molteplicità del reale a un senso immanente.  Tuttavia anche per Blei, come per Musil, la realtà non è altro che un “inesauribile catasto del frammentario”, dove tutto è fungibile e irrelato. L’unico modo per smussarne gli spigoli consiste allora nell’ironia e nella consapevolezza che ogni tentativo di ordinarla è destinato al fallimento.

Scoiattolo di Pallas

Servizi 16.10.2022, 18:38

  • ©Depositphotos

Il libro si intitola Il grande bestiario della letteratura, prende spunto dai grandi bestiari del Medioevo e propone un suggestivo e intrigante parallelismo tra i massimi scrittori dell’epoca in lingua tedesca e le varie specie di animali. Ogni scrittore viene paragonato a un animale, o forse sarebbe meglio dire che ogni animale viene paragonato a uno scrittore, secondo il principio che lo stesso Blei, sul filo dell’ironia e del paradosso, illustra in questi termini nell’introduzione al volume: «Per nulla spaventato dai numerosi predecessori, mi sono cimentato anch’io nella descrizione breve quanto chiara e precisa di questi animali. Esistono infatti tutti i segni premonitori forieri di un’incombente catastrofe sul globo terrestre e i pochi dei molti animali oggi ancora viventi, sopravvissuti a questo secondo Diluvio Universale, e ridotti ormai a miseri resti, potranno essere ammirati esclusivamente nei musei paleontologici, tanto più che non sarà possibile trovare un secondo Noè generosamente disposto a costruire un’arca per salvare questa fauna. Alla luce di queste considerazioni, il compito di descrivere i nostri animali a vivo si presentava ancora più urgente».

Blei tiene fede in maniera gustosamente canaille a questa presunta urgenza e dà vita a un vero e proprio zoo letterario del quale fa parte anche Robert Walser, il grande scrittore svizzero tedesco nato a Bienne nel 1878 e morto a Herisau nel 1956, che a sua volta ci ha regalato molte divertentissime pagine sul mondo animale e nel bestiario di Blei viene così descritto: «E’ un animaletto oltremodo leggiadro, grazioso e lunatico. Appartiene alla famiglia degli scoiattoli. Non lo si vede su alberi altissimi, su cui del resto non tenta neppure di arrampicarsi. Tuttavia, la grazia ingenua e contemporaneamente maliziosa del Walser conferisce agli alberi di media altezza una gaia vivacità». La definizione, oltre che molto simpatica e spiritosa, è estremamente indovinata, perché coglie il nucleo più intimo e profondo della poetica di Walser e lo restituisce nell’immagine della “grazia ingenua e maliziosa” dello scoiattolo che evita di arrampicarsi sugli “alberi altissimi”. Resterebbe da chiedersi che specie di scoiattolo: forse lo scoiattolo di Pallas, noto anche come scoiattolo arboricolo dal ventre rosso.

E’ fuori di dubbio, del resto, che il passeggiatore Robert Walser amava moltissimo gli scoiattoli con la loro “grazia ingenua e maliziosa”, visti e ammirati chissà quante volte nel silenzio e nella solitudine di qualche bosco, ma è altrettanto fuori di dubbio che il suo animale preferito era la rondine, alla quale nel 1919 ha dedicato un breve brano in prosa che si intitola Cara rondinella e si apre con queste parole: «Ti ho vista stamattina dalla finestra e adesso ti scrivo, forse inutilmente, perché questa lettera non ti arriverà e anche perché tu non sei in grado di leggere. Non sei nemmeno nell’elenco degli indirizzi, dal momento che sicuramente tu vivi, dormendo e sognando, in qualche caro nido nascosto. Mi credi, se ti dico che la invidio questa tua casa?».

La passeggiata - Robert Walser

RSI Cultura 17.06.2023, 15:55

Walser è stato uno degli scrittori di lingua tedesca maggiormente vicini al mondo animale, visto e interpretato come una sorta di Gegenwelt, un mondo opposto a quello degli uomini con tutte le loro bassezze, miserie, cattiverie e meschinità. Cara rondinella, in particolare, è un brano in prosa molto significativo e rivelatore non solo perché ci mostra fino a che punto in Walser l’osservazione della pura esteriorità e del mondo animale sia motivo di una sorta di continuo incantamento (come in Bestie di Federigo Tozzi, per trovare un paragone nella letteratura italiana dello stesso periodo), ma anche perché ci dà l’idea di quanto Walser abbia amato gli animali contrapponendoli agli esseri umani.

La contrapposizione, nel brano dedicato alla rondinella, si evidenzia proprio nel suo valore metaforico: da un lato c’è la pesantezza, che costringe gli umani al suolo; dall’altro c’è la leggerezza, che permette agli uccelli di volare. Walser la esprime in uno splendido passo che sembra anticipare una celebre sequenza del film Birdy di Alan Parker, del 1984: «Com’è stato bello osservarti! Volavi con le tue compagne nella luce argentea, nel divino mare del cielo, ti precipitavi di qua e di là, ti libravi fin su verso i monti per poi planare in picchiata, come se ti fossi trovata senza forze e volessi giacere a terra con le ali fracassate, ma per fortuna non era così, perché rimanevi ferma in equilibrio sfruttando lo slancio. Sembravi così sconsiderata, eppure così meravigliosamente attenta, e volavi ora in circolo, ora in linea retta, ora in linea ondulata, e io udivo la tua vocina che si accordava così teneramente al tuo carattere ed era un lieve gridare più che un canto. Non ti si potrebbe definire sicura di te, eppure sai il fatto tuo. Sei anche allegra e felice?».

«Sei anche allegra e felice?». La domanda è una delle tante crepe che solcano la superficie apparentemente levigata e idilliaca della scrittura e del mondo poetico del grande scrittore di Bienne. Anche quando Walser fornisce una risposta, come nel caso del brano finale, si ricava l’impressione che abbia semplicemente la funzione di rendere la domanda più insistente e perfino angosciante: «Ma perché questo punto interrogativo? Noi che siamo costretti a terra, incatenati dai timori, noi uomini maldestri non sappiamo nulla dell’esistenza degli alati. Spero che ti piaccia qui da noi e ti prego di indugiare a lungo prima di andartene, perché quando te ne vai significa che comincia il freddo. Ma per ora sei qui, e fino a che tu ci sarai, ci sarà anche l’estate».

Robert Walser si è descritto molto spesso per mezzo degli animali, in un continuo e sorvegliatissimo gioco di allusioni, trasporti emotivi, rispecchiamenti, rimandi e proiezioni immaginative. E’ molto significativo, al proposito, un altro brano in prosa, pubblicato nel 1924 e consacrato a due animali sostanzialmente antitetici come il cavallo e l’orso, perché Walser avrebbe voluto essere un cavallo (col suo «nobile contegno e l’espressione quasi di tristezza») ma quasi sempre si ritrovava nei panni dell’orso, vale a dire dell’outsider. Il cavallo, infatti, «tollera il proprio cavaliere con dignità, con impazienza e mitezza, con grazioso sdegno e nello stesso tempo con rassegnazione». E magari può capitare che «una bella signora dai lunghi capelli, reggendo delicatamente il frustino con la mano guantata e sognando non so cosa, gli cinga il collo, gli accarezzi il pelo fulvo, lo osservi e gli parli».

Il destino dell’orso è del tutto differente: «Non è propriamente bello, anzi è piuttosto comico nei suoi movimenti goffi, è abile e nello stesso tempo impacciato, non si sa davvero come definirlo. Ti vuole porgere la sua zampa e tu involontariamente ti ritrai. Non pensi che potresti ferirlo con questa tua paura? In fondo, un orso possiede dell’amor proprio». Il risvolto autobiografico è evidentissimo: Walser sapeva di essere un outsider, un cosiddetto “poeta delle mansarde”, un passeggiatore solitario, perso nelle proprie fantasticherie, lontano dal cosiddetto consorzio civile e dai centri nevralgici della vita culturale. Un orso, insomma, ma non per questo meno degno di considerazione rispetto ai veri o presunti cavalli di razza, se vogliamo rimanere al paragone proposto nel brano.

La considerazione arriverà invece dopo la morte, che a sua volta giungerà alla fine di un lungo oblio e di un quarto di secolo trascorso in una clinica psichiatrica. Nell’ultima parte del segmento dedicato all’orso, si può forse leggere tra le righe un oscuro presentimento di questo destino: «Provavo compassione per l’orso. Aveva teso il braccio verso una fanciulla: lei, la quintessenza della finezza di sentimenti; lui, invece, l’incarnazione della goffaggine, e poi non si era nemmeno pettinato, eppure avrebbe dovuto pensarci. “Lasciami in pace”, disse la fanciulla, e lui se ne andò immediatamente come un uomo che capisce parole e cenni, andò a letto e scomparve sotto le coperte». E’ quindi il Walser-Orso che ha scritto frasi come: «Nessuno ha il diritto di trattarmi come se mi conoscesse» (nel brano in prosa Il bambino, del 1924) e «Non scrivo per le molto rispettabili persone che nei libri cercano dei punti fermi per la vita» (nel romanzo Il brigante, redatto nel 1925-26 e pubblicato postumo).

L’animale walseriano per eccellenza -forse non il preferito, ma con ogni probabilità l’animale “originario”, che contiene e spiega tutti gli altri e comunica con la massima intensità e nitidezza la sua visione del mondo- è tuttavia il gatto. Walser aveva una speciale inclinazione per i gatti (forse derivata dalla lettura in giovane età della novella Specchio il gattino dell’amatissimo Gottfried Keller e del romanzo Il gatto Murr di E.T.A. Hoffmann), perché nel loro comportamento elusivo e nel loro sguardo sfingeo e “filosofico” vedeva l’esatta negazione di tutte le assurdità e insensatezze, vanità e inutilità che agitano e guastano la vita degli esseri umani.

Una percezione, peraltro, che alcuni decenni dopo verrà ribadita da Ennio Flaiano in un meraviglioso aforisma: «Il mio gatto fa quello che io vorrei fare, con meno letteratura». Il senso è chiarissimo: il gatto “è”, semplicemente, basta a se stesso e soprattutto trova in se stesso il proprio significato, mentre il povero e sciagurato essere umano è costretto a ricorrere a succedanei quali appunto la letteratura -ma non c’è soltanto la letteratura, il repertorio delle finzioni è vastissimo- per illudersi di “essere”.  

 Robert Walser piccolo zoo

I gatti di Robert Walser.

Ci sono molti gatti nelle pagine di Robert Walser, che in alcune occasioni li ha addirittura immaginati nei panni dei moschettieri. Ma con Walser bisogna sempre stare molto attenti, soprattutto nel caso di un brano in prosa del 1929 intitolato semplicemente Per il Gatto (Für die Katz, nell’originale tedesco). Il titolo farebbe pensare a una sorta di esaltazione di quella che lo stesso Walser definisce “gattità”, ma è vero solo in parte. L’espressione tedesca für die Katz sein significa infatti “essere inutile, superfluo, vano”, ed è proprio con questo significato che Walser gioca nello scritto, un po’ come il gatto col topo.

Brano da "La passeggiata" letto da Adalberto Andreani

RSI Cultura 15.12.2017, 08:29

La vita umana nel suo complesso, in tutte le sue infinite manifestazioni (ovviamente anche nella letteratura) gli appare qualcosa für die Katz, come si evince dalle prime righe:  «Il Gatto è una specie di fabbrica o stabilimento industriale per il quale gli scrittori preparano e consegnano ogni giorno e forse perfino ogni ora, fedelmente e assiduamente, il loro lavoro. Perfino i poeti lavorano per il Gatto, dicendosi che è sempre meglio fare qualcosa piuttosto che niente. Chiunque faccia qualcosa, lo fa per volere dei suoi occhi misteriosi. Il Gatto lo si conosce e non lo si conosce. Lui sonnecchia, e nel suo sonnecchiare vibra un” ron-ron” di piacere, e chiunque cerchi di carpire il suo segreto si scontra con un mistero impenetrabile. Ai miei occhi, non solo tutto ciò che è utile per l’impresa, tutto ciò che possiede un qualche valore per i marchingegni della civiltà, non solo tutto ciò è il Gatto, ma, come ho già detto, l’impresa stessa è il Gatto».

Lo scritto, come già accennato, è del 1929. Il cinquantunenne Robert Walser si trova già da qualche mese nella clinica Waldau di Berna. Quattro anni dopo, nel giugno 1933, viene trasferito nella clinica psichiatrica di Herisau nel Cantone di Appenzell, dove trascorre gli ultimi ventitré anni della propria vita senza più scrivere nulla per il “Gatto” (e cioè per il Nulla). La sua opera è stata pienamente riscoperta e rivalutata soltanto dopo la morte. Dice la parte finale del brano in prosa: «Definisco “Gatto” il mondo d’oggi. Per quello a venire, non mi permetto di fare uso di appellativi tanto familiari. Tuttavia, è da sempre che gli uomini lavorano per il Gatto. Tutto ciò che si fa è destinato a lui, e lui lo assapora, e ciò che malgrado tutto gli sopravvive, continuando a esercitare il proprio effetto, ciò soltanto è imperituro».

Ha scritto di lui uno dei suoi grandi estimatori, Hermann Hesse, molto prima della riscoperta postuma: «Se Robert Walser avesse centomila lettori, il mondo sarebbe migliore». Si sbagliava, ovviamente, e sapeva di sbagliare, perché conosceva fin troppo bene gli “inferni climatizzati” (la definizione è sua) della civiltà: oggi Walser ha ben più di centomila lettori, eppure il mondo non è affatto migliore e il “Gatto”, nelle sue varie forme e declinazioni, è sempre più onnipresente e pervasivo. Ma questa -forse- è tutta un’altra storia. E comunque la parole di Hesse rimangono sempre valide, proprio nell’indicazione di una splendida quanto irraggiungibile utopia.

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