Con la consueta ironia, che secondo l’amico Giovanni Russo gli serviva principalmente per nascondere il pensiero della morte e la paura della noia, Ennio Flaiano si era autodefinito uno scrittore satirico minore dell’Italia del benessere. Mentiva, ovviamente, e sapeva di mentire, ma sapeva anche che il pensiero della morte, la paura della noia e l’amara consapevolezza che nell’eterna e universale pagliacciata niente vale niente lo avevano portato almeno in parte a disperdere il proprio talento.
Nato il 5 marzo 1910 a Pescara e morto a Roma nel 1972, penna elegante e sopraffina, straordinario sceneggiatore (Fellini attinse a piene mani dal suo genio, soprattutto ne “La dolce vita” e “Otto e mezzo”), ma anche uomo di profonde disillusioni, tendente all’umor nero (la “malinconia canina”, secondo la sua stessa definizione) e di una pigrizia elevata quasi a massima esistenziale, Ennio Flaiano ha pubblicato in vita soltanto sei libri. Pochi, troppo pochi per uno scrittore della sua caratura. Tutto il resto -composto in larga parte di articoli, recensioni, elzeviri, piccoli racconti e note di costume che coprono un arco di tempo di quasi quarant’anni- è apparso su giornali e riviste oppure è rimasto confinato nei cassetti, di modo che si può dire che l’opera di Flaiano è in larga parte postuma, perché è stata ordinata e pubblicata solo dopo la morte. Soltanto oggi, insomma, abbiamo tutti gli strumenti per affermare che Flaiano non è stato uno scrittore satirico minore dell’Italia del benessere, ma uno dei grandi del Novecento letterario italiano.
Flaiano appartiene alla folta schiera di scrittori che per così dire hanno continuato a scrivere anche dopo la morte. Nel suo caso, la questione può essere compresa e inquadrata a partire da una suggestiva classificazione operata da Cesare Garboli. Secondo Garboli, infatti, ci sono gli scrittori che hanno saputo amministrarsi in maniera estremamente oculata: da loro, «una volta passati a miglior vita, non ci aspettiamo più nulla». E poi ci sono i cosiddetti “dissipatori”, gli eccentrici, che non si limitano a scrivere anche dopo la morte ma anzi vengono «traditi» e «smascherati» dalla morte stessa: Flaiano è da annoverare in questa schiera, e quindi, secondo l’opportuno suggerimento di Garboli, è nelle sue «carte disperse» che bisogna andare in cerca della «verità che non ci è stata detta». Non che i pochi libri pubblicati in vita (tra i quali vale la pena di ricordare un grandissimo romanzo sul colonialismo italiano come “Tempo di uccidere”, oggi colpevolmente e inspiegabilmente sottovalutato) siano privi di verità, o che in quei libri la verità non venga detta. Ma quella stessa verità, nelle “carte disperse”, assume nuove e talora inattese screziature, si fa più profonda, più definitiva, quasi consegnata a futura memoria.
Tra le tantissime “carte disperse” del dissipatore Flaiano meritano una menzione particolare gli scritti raccolti nel volume “L’occhiale indiscreto”, edito per la prima volta da Bompiani nel 1995 e recentemente riproposto da Adelphi. Il libro, che prende spunto da una rubrica che Flaiano tenne nel 1945 sul “Secolo XX”, copre un arco di tempo di circa un trentennio, a partire dai primi anni Quaranta, e si conclude con le note di costume pubblicate su “L’Espresso” dal 1970 al 1972. Tra gli scritti pubblicati su “L’Espresso” figurano anche gli ampi blocchi narrativi “Dizionario della Makina”, “Manifesto del pedone” e “Welcome in Rome”, tre gustosissime variazioni sul tema del consumismo, dell’alienazione e del turismo di massa. C’è da chiedersi cosa avrebbe detto Flaiano (il quale sosteneva l’esistenza di una forza di gravità che tende a riportare l’essere umano al suo stato originario, cioè la stupidità) a proposito dell’uso -e soprattutto dell’abuso- delle nuove tecnologie.
Ennio Flaiano, a cura di Maria Grazia Rabiolo
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La satira, la noia e la fede: le risposte di Ennio Flaiano (1/5)
RSI Cultura 09.12.2019, 10:43
La satira, la noia e la fede: le risposte di Ennio Flaiano (2/5)
RSI Cultura 09.12.2019, 10:43
La satira, la noia e la fede: le risposte di Ennio Flaiano (3/5)
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La satira, la noia e la fede: le risposte di Ennio Flaiano (4/5)
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La satira, la noia e la fede: le risposte di Ennio Flaiano (5/5)
RSI Cultura 09.12.2019, 10:44
Leggendo “L’occhiale malinconico” si ha l’impressione di trovarsi al cospetto di un’enciclopedia dell’Italia del benessere. In realtà, quella di Flaiano è una vera e propria discesa nei meandri più oscuri dell’eterna mentalità italiana. Basta leggere, ad esempio, questa considerazione contenuta in uno scritto del 25 luglio 1945: «Tutto sommato, ci accontentiamo con poco. Chi ha detto che gli italiani sono incontentabili? Noi siamo inesorabili soltanto nelle minuzie, tutto il resto non conta. Dirò che saremmo perfino disposti a un’altra dittatura, purché cambiasse titolo». Oppure quest’altra considerazione, dal titolo “Il superfluo necessario”, del 29 luglio dello stesso anno: «Chiedevamo pasta, luce, gas, telefoni e trasporti, e avemmo invece subito una cosa che non sembrava necessaria, la libertà di esprimersi». E’ quasi incredibile notare come Flaiano, con le macerie della guerra ancora fumanti, avesse già capito tutto. Poi le cose (apparentemente) cambieranno, verranno il benessere e “La dolce vita”, che lo sceneggiatore Flaiano commentò in questi termini: «Il film di Fellini nasce dal bisogno di raccontare come sono andate le cose per noi della nostra generazione, che abbiamo creduto di poter sistemare le nostre faccende spirituali così come andavamo sistemando quelle economiche. Vuotando il bicchiere abbiamo visto che in fondo c’era il verme. Ognuno ha reagito secondo la sua natura: chi ha ingollato anche il verme, chi ha gettato via il bicchiere, chi ha vomitato. Io continuo a vomitare. Ma senza recriminazioni».
«Non ho mai immaginato Flaiano come non presente», ha detto giustamente un altro suo grande amico, Enrico Vaime, compagno di lavoro ma anche di tanto “tempo perso”, che Flaiano considerava a ragione il vero tempo della vita. In effetti è così: a quasi cinquant’anni dalla morte, Flaiano è sempre presente e sempre più indispensabile per capire la versione tipicamente italiana della tragicommedia dell’esistenza. In fondo è stato lui, il grande dissipatore, nell’ormai archeologico 1959, a scrivere queste righe profetiche: «Fra trent’anni l’Italia sarà non come l’avranno fatta i governi, ma come l’avrà fatta la televisione».