Letteratura

Il pensiero triste che si balla

Borges, la “rosa profonda” e il tango come realtà e metafora. Un viaggio alle sorgenti del mito 

  • 9 agosto, 09:27
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Jorge Luis Borges

Di: Mattia Mantovani

Tra le tante ragioni che fanno di Jorge Luis Borges uno degli scrittori più grandi e originali del Novecento c’è anche – e forse soprattutto – quella che si potrebbe definire la contiguità e fluidità dei generi. Perché Borges è stato un grande poeta come narratore e un grande narratore come poeta, mentre nella saggistica è riuscito nell’impresa di fondere la tensione lirica della poesia, la fantasia della narrazione che reinventa e rimodella la realtà e il rigore logico e argomentativo dello studio scientifico.

Uno dei massimi esempi di questo prodigioso eclettismo è costituito da La rosa profonda, un volume di poesie (ma la definizione è riduttiva) uscito nel 1975, in un momento particolarmente difficile e tormentato nella vita di Borges, che due anni prima aveva abbandonato l’incarico di direttore della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires in segno di protesta nei confronti del ritorno al potere di Péron. Nello stesso periodo si era anche ammalata l’anziana madre Leonor, che morì due anni dopo, al termine di una lunga agonia.

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La rosa profonda, che può essere considerata a tutti gli effetti la sua “opera originaria”, perché riassume tutte le opere che la precedono e contiene in nuce tutte quelle che la seguiranno, è precisamente il racconto in versi della disavventura pubblica e del dolore privato, che nella reinvenzione poetica di Borges si uniscono in una riflessione malinconica sul destino, il tempo che passa, la pochezza e caducità delle cose umane, sulle «brevi gioie e lunghe sofferenze» che scandiscono il tormentato e tormentoso cammino di una vita, come dice una delle prime poesie.

Tutta l’opera di Borges è segnata, a dire il vero, dal senso del tempo e dal tentativo di salvare l’opacità delle cose nella limpidezza trasfigurante della memoria, ma nelle splendide liriche di questo volume si ha l’impressione di avvertire come un cedimento. Anche la memoria, sembra dire Borges, è impari alle troppe cose che passano e si perdono. L’unica memoria che potrebbe salvare è quella di Ireneo Funes, descritta in un celebre racconto di Finzioni. Una memoria prodigiosa, certo, ma anche astratta, disumana, letale come la consapevolezza che richiama e risveglia dall’oblio: «Funes discerneva continuamente l’avanzata tranquilla della corruzione, delle carie, della stanchezza. Notava il progredire della morte, dell’umidità. Era lo spettatore solitario e lucido di un mondo multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente preciso. Pensare significa dimenticare differenze, significa generalizzare, astrarre. Nel mondo stipato di Funes, non c’erano altro che dettagli, quasi immediati».

Pagina dopo pagina, lirica dopo lirica, si instaura quindi un’atmosfera plumbea e soffocante: il destino, ad esempio, è lo strumento di un’alterità imperscrutabile («Le pedine d’avorio sono estranee / all’astratta scacchiera come la mano / che le muove»), mentre i sogni si trasformano in incubi che provengono da un passato «di mito e di caligine», dove la memoria affonda nel vuoto e nel nulla. Anche il mito fondativo della poesia di Borges, lo specchio inteso come immagine riflessa e paradossalmente più autentica della realtà, si frantuma in mille pezzi, ognuno dei quali non fa altro che moltiplicare il dolore, perché «accresce la somma delle cose che siamo».

Si tratta peraltro di un verso molto rivelatore, perché spiega a distanza di oltre trent’anni tutto l’incipit di Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, il primo racconto di Finzioni, e le lapidarie considerazioni poste a suggello della prima pagina: «Uno degli eresiarchi di Uqbar aveva dichiarato che gli specchi e la copula sono abominevoli, perché moltiplicano il numero degli uomini». Tolti gli “abominevoli” specchi e la memoria, rimangono la cecità e l’oblio, che non possono restituire un senso al passato, ridotto a «una soffitta stipata di arnesi inutili».

La contiguità e la fluidità riguardano tuttavia non solo i generi e l’approccio, ma anche gli argomenti, perché lo scrittore argentino ha trattato in sostanza gli stessi temi ma sempre da diverse prospettive, o comunque declinandoli a partire da presupposti di volta in volta differenti. È un discorso che vale per tutti i suoi temi prediletti, la rimemorazione come realtà potenziata, il mondo/universo come biblioteca (e viceversa), la natia Buenos Aires come luogo dell’anima e coordinata esistenziale, per finire con quello che si può forse definire il tema borgesiano per eccellenza: il tango inteso come realtà e metafora, che è presente in maniera diretta o indiretta in tutte le sue opere da Evaristo Carriego del 1955 in poi, sia in forma poetica che in forma narrativa. Ma anche in forma saggistica, perché nell’autunno 1965 Borges tenne a Buenos Aires quattro leggendarie conferenze sul tango raccolte nel 2016 in un volume che ne propone la trascrizione fedele, di modo che si ha quasi l’impressione di ascoltarne la viva voce, con la sua inconfondibile cadenza, la falsa modestia che si può perdonare – e di fatto si perdona – solo ai grandissimi, le pause, i silenzi e i tic sintattici e lessicali.

C’è un fortissimo trait-d’union che salda tematicamente le conferenze sul tango e le liriche de La rosa profonda. Giunto alla soglia dell’indicibile, ne La rosa profonda Borges cerca infatti un’estrema salvezza nella poesia, pur nella consapevolezza che potrebbe trattarsi di un doloroso e irreparabile inganno. Solo la poesia è in grado di conferire alle parole, consumate dall’uso e dalla chiacchiera quotidiana, quella dimensione magica ed evocativa in grado di rispecchiare la realtà e insieme di investirla di un significato non univoco, ma anzi aperto alle reinvenzioni della fantasia.

Il tentativo intrapreso un decennio prima nelle quattro conferenze sul tango, il «pensiero triste che si balla», è sostanzialmente lo stesso e prende spunto dalla consapevolezza di una perdita irrimediabile. Per Borges, il tango nella sua accezione originaria – non solo un ballo lento, languido e voluttuoso, ma una vera e propria concezione del mondo nonché espressione di una ben precisa condizione dell’anima – non si identifica né col “rettile da lupanare” sprezzantemente derubricato da Leopoldo Lugones, né col ballo commercialmente banalizzato e compromesso (il giudizio, forse un po’ eccessivo e non del tutto condivisibile, è dello stesso Borges) che intorno alla metà del Novecento ha cominciato ad affermarsi nelle capitali europee, soprattutto a Parigi.

Il tango che interessa a Borges, e che viene trattato con dovizia di particolari anche tecnici nelle quattro conferenze, è il tango delle origini, una scena drammatica e insieme un lamento amoroso, che si identifica in maniera pressoché esclusiva con una Buenos Aires che da concreto luogo geografico diventa una coordinata esistenziale. Lo si capisce molto bene anche dai titoli: Le origini del tango, Di compaditros e guappi, Evoluzione ed espansione e Anima argentina.

Più che “Borges e il tango”, si dovrebbe forse dire: “Borges è il tango”. L’io narrante di un suo splendido apologo contenuto nel libro intitolato L’artefice, giunto al termine della vita, si rende infatti conto che il proprio volto, e cioè la propria essenza più intima, è costituito principalmente dalle persone che ha incontrato e amato, dai libri letti, dalla musica ascoltata, nonché dai luoghi visti o anche soltanto immaginati. Le quattro conferenze sul tango, da questo punto di vista, sono l’ennesimo esempio – senza dubbio uno dei più significativi – del genere tipicamente borgesiano dell’autobiografia obliqua.

Perché parlando del tango, con una malinconia tenuta a freno nell’arte della parola e risolta in una superiore saggezza, Borges parla in realtà di se stesso, della propria vita e delle proprie origini, muovendosi sul sottilissimo quanto fascinoso confine che separa l’indicibile e il mito. Il tango delle origini, proprio in quanto indicibile e ormai perso nei meandri e recessi della memoria, assurge alla dimensione del mito. Il mito, più nello specifico, di una visione del mondo che Borges vedeva rappresentata da certe zone e certi ambienti di Buenos Aires: «Dove nasce il tango? Negli stessi luoghi in cui sarebbe nato, pochi anni dopo, il jazz negli Stati Uniti. Cioè, nelle casas malas. Quelle case erano in tutta la città».

Ecco perché, esattamente come ne La rosa profonda, nelle conferenze sul tango prendono forma e rivivono un tempo e una Buenos Aires che non esistono più, una piccola città di case basse col patio, circondata da campi aperti e limitata all’attuale quartiere del Sur, dove risuonano le note della milonga e dell’habanera (le scaturigini del tango) che fanno da sfondo alla vita di una variopinta canaglia formata da guappi, magnaccia e donne di malaffare. È l’epopea del coraggio, il gusto di sfidare il più forte che il conferenziere sente poi vibrare nel primo tango, simbolo di una felicità irrelata e di una vita vissuta nella sua totale e quasi selvaggia immediatezza.

Borges la rievoca con straordinaria incisività, nella consapevolezza che si scrive, si parla e si vive sempre “dopo”, quando subentra la povera memoria umana (non quella di Funes) che ordina astrae generalizza e suddivide, creando un gioco di specchi che a sua volta riflette, riproduce e insieme sottrae il mistero dell’esistenza, simile a una rivelazione che non si produce. Un mistero che si svela e insieme si nasconde, come nella celebre poesia sulla tigre, dove la figure retoriche disegnano una bellissima tigre di carta senza tuttavia raggiungere la tigre autentica, fatta di carne e di sangue, che si muove e striscia nel folto della foresta.

Ma la dialettica irrisolta di svelamento e nascondimento è presente soprattutto – e non è affatto un caso – nei versi finali di una meravigliosa lirica dedicata al tango e magistralmente musicata da Astor Piazzolla. Dove si parla di «un istante che affiora isolato» e ha «il sapore di quel che abbiamo perso»:

Vi sono cose antiche in quegli accordi,
la pergola intravista, l’altro patio.
(Dietro i suoi muri sospettosi il Sud
ha in serbo una chitarra e un pugnale).
Quest’incantesimo, questa ventata,
il tango, sfida gli anni affaccendati;
di polvere e di tempo, l’uomo dura
meno della leggera melodia, che è solo tempo

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