Letteratura

Il potere del racconto

Il ruolo delle storie nella formazione delle identità individuali e collettive

  • 5 gennaio, 08:29
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Di: Anna Brunati 

Il racconto è presente in tutti i tempi, in tutti i luoghi, in tutte le società: il racconto comincia con la storia stessa dell’umanità.” Così scriveva il critico e semiologo francese Roland Barthes ne “L’analisi del racconto” (1969) specificando che “non è mai esistito in alcun luogo un popolo senza racconti” e che “il racconto è là come la vita”. Siamo fatti della stessa materia di cui sono fatte le storie: fin dalla notte dei tempi, il racconto è stato un mezzo per trasmettere il sapere, le tradizioni, connettere le comunità, rafforzare i legami e forgiare le identità collettive.

Come affermava Jerome Bruner, uno dei padri della psicologia moderna, “le storie sono una forma di conoscenza. Attraverso il racconto autobiografico, costruiamo la nostra identità e diamo significato alle esperienze della nostra vita”. Il racconto è uno strumento cognitivo e di relazione; la risposta al bisogno di attribuire alla vita la parvenza di un ordine, attraverso una rete di significati. Un ordine, spesso temporale, che dà forma alla memoria autobiografica, la storia della nostra vita. È il bisogno di tradurre in parole le esperienze e i ricordi che ne derivano, di dare un posto agli episodi e ai momenti cruciali, di interpretare il mondo. Ma anche di relazionarci ai nostri simili, di identificarci con un gruppo, una comunità o le nostre radici. Uno sforzo che plasma a sua volta il valore dei ricordi e delle esperienze, spesso al di là della loro portata effettiva. Non a caso, uno degli scopi della psicoanalisi è proprio quello di aiutare l’individuo a riappropriarsi del suo percorso personale attraverso la rielaborazione dei ricordi. Slegate dall’ordine cronologico, le esperienze possono acquisire un nuovo significato, con la possibilità di riscrivere la propria storia e immaginare nuove prospettive per il futuro.

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Le Storie siete voi

Storie 17.12.2023, 20:40

La consapevolezza stessa di questi processi offre già una lente attraverso cui rileggere la propria vita e la percezione di sé, un potere creativo insito in ogni essere umano. Il racconto si presenta come una finestra sul possibile che permette all’immaginazione di vagare, formulando le ipotesi più disparate con la formula del “come se”. Ogni racconto ha in sé l’opportunità di nutrire l’immaginario ed espanderlo, grazie all’esplorazione di altri mondi possibili. Ma anche di ricollegarci a valori ed archetipi universali. Come scriveva Barthes, “il racconto è presente nel mito, le leggende, le favole, i racconti, la novella, l’epopea, la storia, la tragedia, il dramma, la commedia, la pantomima, il quadro (si pensi alla S. Orsola di Carpaccio), le vetrate, il cinema, i fumetti, i fatti di cronaca, la conversazione”. Una varietà di forme pressoché infinita, tra cui oggi possiamo citare anche le serie tv e i social network. Al contempo, le storie con cui entriamo in contatto si collegano ai ricordi e agli eventi fondamentali della nostra vita, scandendone i tempi. Un motivo in più per dedicare particolare attenzione al modo in cui selezioniamo le storie che alimentano il nostro immaginario, in funzione dei nostri obiettivi e valori.

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Storie di Sant’Orsola, particolare da “L'Incontro dei fidanzati e partenza per il pellegrinaggio” di Vittorio Carpaccio (1495)

“Non c’è nulla di più umano che condividere storie, intorno al fuoco o in una ‘nuvola’” ribadisce il sociologo Henry Jenkins. Nel panorama attuale, i social media offrono uno spazio, una “nuvola” in cui raccontarsi, riconoscersi in una o più comunità e rappresentare sé stessi, creando un profilo o avatar che permette a ciascuno di scegliere come mostrarsi. Il racconto di sé esce dalla dimensione intima, piegandosi spesso a un’immagine idealizzata, più aderente alle aspettative percepite e suscettibile dell’approvazione del pubblico. Eppure, se l’atto di condividere è un modo di affermare sé stessi e di intessere relazioni, come osserva Sherry Turkle, autrice di Insieme ma soli, “Quando una tecnologia simula l’intimità, le relazioni si riducono a mere connessioni. E in modo altrettanto semplice, le connessioni vengono spacciate per intimità. Detto altrimenti, le cyber-identità non sono altro che cyber-solitudini”. Una dimensione alienante, secondo l’autrice, che occupa gran parte del tempo libero e rende gli individui succubi e ansiosi. Il presente digitalizzato ci offre dunque l’occasione di cogliere questa nuova sfida, quella di cercare un dialogo più autentico con noi stessi e con i nostri simili, continuando a scrivere la nostra storia più liberi dalla necessità del riconoscimento e dell’approvazione altrui.

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