In uno splendido apologo di Jorge Luis Borges contenuto nel libro intitolato L’artefice, l’io narrante, giunto al termine della vita, si rende conto che il proprio volto – e cioè la propria essenza più intima – è costituito principalmente dalle persone che ha incontrato e amato, dalle musiche che ha ascoltato, dai libri che ha letto, nonché dai luoghi che ha visto o anche soltanto immaginato. Il Premio Nobel elvetico Carl Spitteler, da parte sua, in un passo di un libro consacrato al Gottardo, ha detto una cosa non molto differente e non meno vera: «Un viaggio fatto in coppia lo si ricorda meglio, perfino in assenza dell’altro. Il mondo, osservato per il tramite di un cuore amico, sembra più bello rispetto a quando lo si osserva da soli, con gli occhi che si posano direttamente sulle pietre».
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Ci sono quindi molti modi di raccontarsi e perfino di esistere, per sé stessi e per gli altri: direttamente, indirettamente e perfino obliquamente, in virtù di un gioco di rimandi, rifrazioni e rispecchiamenti. Eduard Mörike, narratore e poeta di un Ottocento tedesco solo cronologicamente lontano e archeologico, ma ancora vicinissimo e vibrante, ha adottato precisamente quest’ultimo procedimento, raccontandosi per interposta persona in quella che rimane non soltanto la sua novella più celebre e giustamente celebrata, ma anche la novella “per eccellenza” della letteratura tedesca del diciannovesimo secolo insieme a Romeo e Giulietta nel villaggio di Gottfried Keller e Immensee di Theodor Storm. Si tratta infatti di una novella che nella sua perfezione è molto vicina, anzi vicinissima, all’utopico ideale flaubertiano della narrazione che si regge interamente sull’equilibrio e la musicalità dello stile. E’ apparsa originariamente nel 1855 su rivista e l’anno dopo in volume: il suo titolo è Mozart in viaggio verso Praga.
Lo spunto, almeno all’apparenza, è piuttosto banale, ma fin dalle prime pagine si capisce che alla presunta banalità sono sottese tematiche e riflessioni di una profondità abissale e vertiginosa. Nell’autunno 1787 il trentunenne Wolfgang Amadeus Mozart, accompagnato dalla moglie Konstanze, parte in carrozza da Vienna e si dirige alla volta di Praga, dove lo attende la rappresentazione della sua opera più intensa e misteriosa, il Don Giovanni, la cui partitura restituisce uno splendido e inquietante viluppo di vitalità e rassegnazione, immediatezza sensuale e sconsolato abbandono alla fatale inevitabilità della morte e dell’annientamento.
Il viaggio è magnifico: la carrozza a tre cavalli, un lussuoso cocchio arancione preso a prestito da una ricchissima generalessa viennese, procede leggera e spedita attraverso il silenzioso rigoglio dei boschi della Boemia. Il puer aeternus Mozart si sofferma con infantile e nativo entusiasmo sulla bellezza del paesaggio, scende più volte dalla carrozza, passeggia tra i boschi, gioca, scherza, e più avanti, giunto ormai nei pressi di Praga, sosta in un piccolo castello dove viene accolto con estrema cordialità ed esegue al pianoforte alcuni passi del Don Giovanni.
Ma nel frattempo calano le tenebre, e la felicità di alcuni brevi istanti non è sufficiente ad allontanare dall’animo di Mozart il presagio della morte. Il genio che si sta recando a Praga per curare la messa in scena della sua opera più tenebrosa non è –non può essere – un animo pacificato e armonioso. Anche quando si immerge nella bellezza della natura, quando gioca scherza e raccoglie fiori, vive sempre nella consapevolezza che ogni momento, anche quello più felice e apparentemente spensierato, incarna in sé, nella pretta fatalità del proprio fluire, i tratti di una scissione che l’arte esprime ma non riesce a sanare. A questo punto, con un procedimento non dissimile da quello adottato da Stendhal coi dipinti del “divino” Correggio, entra in scena il narratore Mörike. Che parla di Mozart e del Don Giovanni, ma soprattutto parla di se stesso, della propria vita e della propria concezione dell’arte.
Il Don Giovanni esprime infatti la scissione e insieme l’impossibilità del suo superamento, mentre il viaggio verso Praga, nella descrizione e reinvenzione di Mörike, esprime il potenziale distruttivo della scissione stessa. Non si tratta quindi di un semplice viaggio, ma piuttosto di una metafora che racchiude il senso più profondo non solo della grandissima arte di Mozart, ma dell’espressione artistica in quanto tale e del rapporto tra l’arte e la vita. Scrive Mörike in uno dei passi maggiormente rivelatori: «Quel presentimento di morte prematura lo accompagnava ad ogni passo e finì col diventare, inesorabilmente, una realtà. Per parte sua, egli si era abituato alle pene di ogni genere e specie, non escludendo il rimorso, divenute ormai l’amaro condimento di ogni gioia. Ma noi sappiamo che anche queste sofferenze finivano per confluire, limpide e pure, in quella sorgente profonda la quale, sgorgando poi da cento bocche d’oro, nel mutarsi inesauribile delle sue melodie effondeva tutto il tormento e tutta la beatitudine del cuore umano».
Il canone letterario, oltre a Mozart in viaggio verso Praga, annovera tra le sue opere maggiori il romanzo Il pittore Nolten, L’idillio del lago di Costanza, la fantasia utopica Orplid, il racconto Il gioiello e numerose poesie, molte delle quali sono state musicate da Robert Schumann. Le più celebre è Mattino di settembre:
Nella nebbia riposa ancora il mondo,
sognano ancora il bosco e i prati.
Presto vedrai, quando cala il velo,
il cielo azzurro immutato
e il vigor d’autunno del sopito mondo
in caldo oro fluire.
Nato l’8 settembre 1804 a Ludwigsburg – nel cuore di quella Svevia pietista poi meravigliosamente rievocata, con grazia e dolcezza epigonale, da Hermann Hesse – e morto il 4 giugno 1875 a Stoccarda, pastore luterano più per obbligo che per autentica vocazione nella parrocchia di Cleversulzbach, riottoso, ipersensibile, divorato dalla necessità di contenere all’interno della forma artistica il caotico fermentare dei fenomeni della vita, Mörike era venuto a conoscenza del viaggio praghese di Mozart grazie alla lettura di alcune biografie dell’epoca e aveva subito intuito il suo forte valore simbolico: il viaggio doveva quindi essere reinterpretato, rimodellato e trasformato in apologo.
Mörike lavora alla propria versione del viaggio di Mozart nella quiete provinciale di una Germania ancora divisa in particolarismi, in quel clima culturale che Heinrich Heine, alcuni anni prima, aveva sintetizzato nell’espressione deutsche Misere, “miseria tedesca”. Ma è proprio in virtù della pesantezza di questo clima stagnante che Mörike, esattamente come il suo corregionale Johann Peter Hebel nel Tesoretto dell’amico di casa renano, riesce prodigiosamente a trasformare un semplice dato biografico e un fait divers in un grandissimo spunto narrativo, dicendo la grandezza dell’arte e insieme la sua inevitabile sconfitta al cospetto delle istanze della vita. Il “suo” Mozart muore giovane non solo perché è un vero artista, ma soprattutto perché è esclusivamente artista e quindi totalmente votato alla potenza demoniaca dell’arte, che conduce alla morte proprio nella misura in cui si presenta come una costante sfida alla morte stessa e un’esaltazione della vita che le si oppone.
Il viaggio del genio, e il cronista che lo descrive e reinventa, sono allora costantemente sospesi tra l’incanto della finitezza e l’oscuro richiamo del nulla. Alla fine, ovviamente, sarà quest’ultimo ad avere la meglio, ma per il momento, sembra dire Mozart alias Mörike (o viceversa), lo spazio vuoto e sospeso tra i due estremi merita comunque di essere riempito e percorso con passione, energia, sorvegliato disincanto e taciuta tristezza. Perché in quello spazio vuoto, come nelle incomparabili melodie del Don Giovanni, sono racchiusi l’eterno mistero della vita e il senso di ogni lotta – tanto inutile quanto grandiosa e ineludibile – contro la transitorietà, le ombre, i fantasmi, le cose che si perdono e svaniscono. Ha scritto lo stesso Mörike in una poesia che potrebbe essere letta come la perfetta sintesi di questa sua inarrivabile novella: «Vedo in rapido volo / il mondo multiforme. / E intanto / laggiù in fondo / odo di continuo la morte / affilare la falce».
Uno dei suoi massimi interpreti in lingua italiana, Bonaventura Tecchi, che durante la prima guerra mondiale fu compagno di prigionia di Carlo Emilio Gadda in Germania, ha individuato con estrema precisione il segreto del fascino senza tempo di questa novella: il velo tramato di malinconie e sorrisi, la delicata mescolanza di veglia e sogno, l’alternanza di luce e tenebre, la compresenza quasi cinematografica e correggesca di primo piano e lontananza (la magie des lointains, secondo la felice espressione di Stendhal), «l’incontro di fiaba e realtà nel presentimento della morte». Non mancando, peraltro, di aggiungere un’avvertenza molto utile: «I lettori non si meraviglino, se può sembrare un paradosso». Perché in quell’apparente paradosso, allora come oggi, si cela e insieme si svela il terribile quanto meraviglioso dilemma che Mozart e Mörike, con questo loro comune viaggio, hanno idealmente inoltrato a noi “venuti dopo”.