Letteratura

Isaac Bashevis Singer

La lingua perduta dell’“ultimo demone”

  • 07.07.2023, 00:00
  • 14.09.2023, 09:02
Isaac Bashevis Singer.jpg
Di: Mattia Mantovani 

Si dice spesso -non senza valide ragioni- che i grandi scrittori sono i peggiori giudici delle proprie opere e gli ultimi che le possono spiegare, ma ci sono anche delle eccezioni. Una di queste eccezioni, con ogni probabilità la più significativa, è rappresentata da Isaac Bashevis Singer, nato nel 1904 a Radzymin in Polonia, emigrato negli Stati Uniti nel 1935 e morto a Miami nel 1991, Premio Nobel per la Letteratura nel 1978. Scrittore grandissimo, di una grandezza quasi incommensurabile e dotato di un prodigioso talento, Singer è stato il massimo rievocatore, insieme al venerato fratello Israel Joshua e alla sorella Esther Kreitman, del “mondo perduto” per eccellenza, quello dell’ebraismo europeo orientale poi annientato dai totalitarismi del Novecento.

Parlando della propria opera, e nel tentativo di restituirne il senso complessivo, Singer disse infatti che la scrittura intesa come racconto è sempre qualcosa che viene “dopo”, perché si scrive sempre “dopo la fine”. La definizione è tanto più vera nella misura in cui tocca un nervo scoperto della grande cultura del Novecento, almeno da Hofmannstahl e Rilke in poi, e cioè l’“indecenza dei segni”, la crisi del racconto, l’impossibilità di trovare una lingua nella quale narrare. Ha scritto lo stesso Rilke nei “Quaderni di Malte”: «Saper narrare, narrare veramente, dev’essere stata una cosa che ha avuto luogo in tempi anteriori ai miei, perché io non ho mai udito una persona narrare». L’uomo “senza qualità” di Robert Musil, ad esempio, difetta in particolare di una qualità: quella consistente nel possedere una lingua per circoscrivere e ordinare i dati del reale, che quindi si riducono a un’infinita enciclopedia di frammenti senza alcun rimando a una possibile totalità.

La scissione tra la vita e la sua rappresentazione rende impossibile la ricerca di un codice -di una sintassi, come ha detto giustamente Max Frisch- in grado di riprodurre e rendere esperibile la realtà. Si è raccontata insomma la mancanza di una sintassi e l’impossibilità di raccontare, come ne “Il mio nome sia Gantenbein” dello stesso Frisch, “Fuoco pallido” di Nabokov, “La morte di mio fratello Abele” di Rezzori oppure “Otto e mezzo” di Fellini, solo per citare alcuni esempi. Ma l’impossibilità di raccontare e narrare, in virtù di un singolare paradosso, è diventata essa stessa racconto e narrazione, anche se fatalmente con forme e modi lontani, talora lontanissimi dalla tradizione.

Non deve perciò stupire che la possibilità di narrare (“narrare veramente”, come diceva Rilke) sia rimasta la prerogativa delle lingue di minoranze ristrette e disperse nelle varie parti del mondo, ma ancora intatte nella loro sintassi e conseguentemente nelle potenzialità espressive. Una di queste lingue è lo yiddish, la lingua parlata storicamente dagli “Ostjuden”, gli ebrei orientali nei piccoli borghi delle zone ai confini tra Germania, Polonia e Russia. Si tratta sostanzialmente di un dialetto tedesco (il termine “yiddish” o “jiddish” è una dialettizzazione del tedesco “jüdisch”, “ebraico”) unito a elementi lessicali ebraici e neolatini, ma soprattutto è la lingua dalla diaspora e dell’esilio.

In occasione del conferimento del Nobel, e per la prima volta nella storia del premio, Singer tenne il discorso ufficiale nella propria lingua madre e parlò dello yiddish come di una «lingua dell’esilio, senza terra, senza frontiere, non sorretta da alcun governo, una lingua che non possiede parole come “armi”, “munizioni”, “esercitazioni militari”, “tattica di guerra”, una lingua disprezzata tanto dai non ebrei quanto dagli ebrei emancipati». E’ in questa lingua spuria e “disprezzata” che Singer ha scritto “dopo”, ricreando il mondo perduto dell’infanzia e della giovinezza e innalzando la concreta dimensione dell’esilio a metafora (il “lontano da dove” di una vecchia storiella ebraica). Lo ha fatto in tutta la sua produzione narrativa, soprattutto nei grandi affreschi come “La famiglia Moskat”, “Shosha”, “Schiuma” e “Ombre sull’Hudson”, solo per ricordare alcuni titoli, perché l’elenco sarebbe lunghissimo e comprende anche gli inediti proposti in tempi più recenti: “Keyla la Rossa”, “Il ciarlatano” e “Max e Flora”, che nel loro insieme si presentano come tre variazioni sui lati oscuri dell’ebraismo orientale (la pericolosa vicinanza coi movimenti anarchici eversivi, la lettura piuttosto libera e disinvolta dei precetti religiosi e non da ultimo la tratta delle ragazze inviate a prostituirsi in Sudamerica).

L’opera di Singer nella quale la lingua yiddish appare nella maniera più diretta come “Heimat” -e cioè come patria senza confini e insieme come radicamento in una lontananza da un centro che non esiste, ma che pure si configura come una coordinata- rimane tuttavia “Un giorno di felicità”, il vero e proprio “libro dell’infanzia” nel quale Singer ha raccontato la vita nel ghetto di Varsavia, dove la sua famiglia si era trasferita nel 1908 da Radzymin, quando il piccolo Isaac aveva quattro anni. Nei diciannove racconti che compongono il volume, e che coprono un arco temporale di circa quindici anni, Singer racconta e reinventa l’infanzia trascorsa nella via Krochmalna, che grazie ai suoi libri è diventata un autentico luogo dell’anima. Scrive ad esempio nel primo racconto, dal titolo “La mia infanzia”: «Il fabbricato ad appartamenti in cui abitavamo era uno di quelli che in America sono i cosiddetti bassifondi. Tuttavia a quei tempi non ci accorgevamo che fosse così miserevole. Una lampada a petrolio faceva luce in casa, la sera. Non si era abituati a certe comodità quali l’acqua corrente calda o il bagno. Il gabinetto, anzi, si trovava in cortile»

E’ in questa via, i cui abitanti «erano persone povere, piccoli negozianti e operai, ma c’erano anche molti ragazzi che studiavano, altri pigri e sfaccendati, dei criminali e gente della malavita», che il piccolo Isaac assorbe le impressioni che diventeranno poi il tratto distintivo del futuro grande scrittore. Ecco il motivo per cui “Un giorno di felicità”, che forse non è il libro narrativamente più compiuto di Singer, è senza dubbio la sua opera più importante e maggiormente rivelatrice, perché leggendo racconti come “Un giorno di felicità”, “La fame”, “Il viaggio” e “Venti nuovi” è possibile comprendere come e perché abbiano preso forma i grandi temi della sua narrativa: l’esilio come cifra più autentica della condizione umana, il contrasto tipicamente ebraico ma latamente umano tra la Legge e la vita, il silenzio di Dio e il dubbio sulla sua esistenza, i raggiungimenti ma soprattutto le disperanti e irredimibili miserie degli uomini.

L’infanzia, diceva giustamente Ennio Flaiano, è il “paesaggio” che non abbandoniamo mai. Non a caso è proprio in quel “paesaggio”, nella via Krochmalna e nelle vicende raccontate in questo libro, che Singer si è imbattuto per la prima volta, e in maniera decisiva, in quella domanda che ha poi ripetuto in infinite variazioni nella sua opera e ha magnificamente riassunto in una dichiarazione rilasciata immediatamente dopo il conferimento del Nobel: «C’è una sola questione. Se il mondo è nato per caso o da un disegno. Nella seconda ipotesi, almeno tutto il nostro dolore trova una giustificazione, uno scopo. Nella prima, invece, non c’è nemmeno questo, e la vita rimane un affare senza speranza».

Straordinario e inarrivabile nei romanzi, Singer è ancora più straordinario nei racconti, soprattutto in autentici capolavori come “Yentl” (dal quale fu tratto un celebre film con Barbra Streisand), “La distruzione di Kreshev”, “Gimpel l’idiota”, “Lo specchio”, “Lo Spinoza di via del Mercato” e “Il non veduto” (anche in questo caso, solo per limitarsi a qualche titolo). Più che nei romanzi, infatti, lo yiddish rivela le proprie potenzialità espressive nella concisione e nella forma breve del racconto, con lo stesso Singer che si mostra e insieme si nasconde nei vari personaggi, riducendosi spesso a una semplice voce che racconta e “narra”, una specie di “Dybbuk”, uno “spettro” che osserva senza essere osservato, come ne “Il non veduto”.

O forse è perfino “l’ultimo demone”, che nell’omonimo racconto -il cui finale ricorda molto da vicino “La famiglia Moskat”- vive in un mondo che non ha più bisogno di demoni, perché ogni bassura è stata toccata, ogni peccato consumato, ogni possibile significato ormai perduto («Io, un demone, assicuro che non rimangono altri demoni all’infuori di me. A che potrebbero servire i demoni, se l’uomo stesso è un demonio? Perché persuadere al male qualcuno che è già persuaso?»). Rimangono soltanto le parole per narrare, “narrare veramente”, ma anche quelle non dureranno a lungo: «Me ne sto qui, l’ultimo dei demoni. Succhio le lettere e mi nutro. Conto le parole, faccio rime e tortuosamente interpreto e reinterpreto ogni puntino». E se tutto fosse stato già detto? E se il “Messia” fosse semplicemente la “morte”, come dice la terribile frase conclusiva de “La famiglia Moskat”? L’ultimo demone prende un libro di racconti yiddish e comincia a leggerlo: «Fino a quando le tarme non avranno distrutto l’ultima pagina, avrò qualcosa con cui trastullarmi». Resterebbe da chiedersi «cosa accadrà quando l’ultima lettera non sarà più». La domanda è semplicemente vertiginosa. La risposta, che esprime tutto il senso della narrativa di Singer (e non solo), è vertiginosamente semplice: «Quando l’ultima lettera sarà scomparsa, l’ultimo dei demoni non esisterà più».

Ti potrebbe interessare