Il crollo dell’Impero asburgico ha avuto come sua causa scatenante la Prima guerra mondiale, che non a caso è stata chiamata la Grande Guerra. Non tanto e non solo per l’entità dei suoi morti e delle sue devastazioni, ma perché appunto è venuto a cadere, insieme al baricentro imperiale, il concetto di grandezza.
Lo stesso si può dire, nello stesso scorcio di anni, per l’Impero zarista e l’Impero ottomano. Anche quelle immense estensioni di terra e potere hanno dovuto vedere la propria grandezza ridotta ai minimi termini fino all’inesorabile scomparsa.
Nel romanzo La Cripta dei Cappuccini di Joseph Roth il sentimento di questo crollo è espresso attraverso due espedienti narrativi geniali. Il primo: pur sapendo perfettamente l’autore di Ebrei erranti che l’elemento scatenante del crollo dell’Impero fu la Grande Guerra, tale guerra, in cui pure il protagonista e Io narrante è convocato, non viene quasi raccontata. O per meglio dire, raccoglie un breve capitolo soltanto su un totale di 34 capitoli. Il secondo: pur essendo appunto la grandezza, il senso di sicurezza procurato da tale grandezza, ciò che in primo luogo è venuto scomparendo con la fine dell’Impero asburgico, Roth si sofferma con accanita maliconia e con dettagliata precisione a narrarci la piccolezza. Quasi che solo nell’ala e dentro la piena protezione della vasta patria austro-ungarica la piccolezza potesse dispiegare fino in fondo la propria grazia.
Claudio Magris sulle tracce di Joseph Roth
Blu come un'arancia 27.12.2017, 10:35
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Non si tratta di due espedienti narrativi casuali. In verità sono entrambi il segno di che cosa Roth intendesse per patria. Una patria è ciò che con una guerra finisce, non ciò che in una guerra si afferma. E una patria non è quanto si manifesta in forma di adesione alla grandezza, bensì quanto la grandezza è in grado di garantire in termini di minuta quotidianità, cioè a ben vedere di piccolezza.
Non a caso dettagli sulla Grande Guerra se ne incontrano nel romanzo pochissimi, mentre dettagli al limite dell’intimistico costellano ogni pagina per testimoniare il quotidiano e il minuscolo, a partire dalle incombenze economiche e dal dramma della sopravvivenza post-bellica. A riprova che la patria è questo alveo materno e che perdere una patria è perdere questo lo sguardo devoto di un maggiordomo, la voce atona di una madre, il lucore soffuso di una candela, l’atmosfera di complicità e solidarietà che attornia le amicizie, il colore della mobilia di casa, il cigolio delle carrozze, i caratteri più intimi delle persone. Tutto questo la guerra distrugge distruggendo, insieme alla grandezza, appunto la piccolezza. Come nel grembo di una madre, l’Impero asburgico assicurava, nella sua grandezza, la dolcezza di essere intimi con l’infinitamente privato, l’infinitamente domestico, l’infinitamente piccolo.
Libro del presagio e del declino, libro della fine di un mondo e dell’avvento di un altro, libro dell’avvento della precarietà e del dissesto morale ed economico, La Cripta dei Cappuccini è dunque quello che potremmo definire un romanzo dello spossessamento e della deprivazione. Non perché crolla un Impero, ma perché quando crolla un Impero viene meno ogni rassicurazione, a partire da quella di appartenere a un mondo noto, familiare, prossimo e amico. Sopravviene anzi quel senso di spaesamento ed esproprio che è tipico della “natura errante” degli ebrei ma anche di tutta quell’Europa che, orfana del proprio grande Impero, non poté in seguito trovare di meglio che nei nazionalismi e nel fanatismo regionalistico.
Una sorta di equaziome matematico-filosofica sembrerebbe dispiegarsi dalle pagine del romanzo di Roth: laddove si allargano i confini della patria fino a lasciarli coincidere con i confini di un Impero, la dolcezza della vita non deve pagare delle aridità del provincialismo nazionalistico; laddove viceversa tali confini si restringono levando respiro al senso di appartenenza, l’asfissia del nazionalismo finisce per annientare, insieme a noi, anche il nostro quotidiano.Scrive emblematicamente Roth, quasi a riassumere in un unico paragrafo la sua nostalgia dell’Impero, la sua nostalgia della patria:
“Io le baciai la mano, lei mi baciò la fronte. Sì, questa era mia madre! Era come se non fosse successo nulla, come se io non fossi appena tornato dalla guerra, come se la monarchia non fosse annientata e ancora esistesse la nostra vecchia patria con le sue molteplici, incomprensibili, ma immutabili leggi, i suoi usi, costumi, inclinazioni, abitudini, vizi e virtù”.