A parte il fatto che Anatomia dell’irrequietezza è un titolo di una bellezza assoluta, questa raccolta di saggi di Bruce Chatwin ha il merito indiscusso di ricordarci uno dei grandi mali della modernità e dell’urbanizzazione: la sedentarietà. Non si tratta di un monito da poco, poiché decreta una cesura fondamentale tra il vivere primitivo e il vivere civilizzato, nelle cui caratteristiche è appunto la coazione a stabilire confini e a segnare territori, attitudine a cui lo spirito nomade o errante non ha mai ceduto.
Nell’incipit del capitolo-saggio intitolato L’alternativa nomade Chatwin riprende dunque eloquentemente Diogene il Cinico ricordando: «Diogene il Cinico diceva che gli uomini presero ad affollarsi nelle città per sottrarsi alla furia di quelli di fuori. Chiusi entro le mura, si diedero a maltrattarsi in ogni modo l’un l’altro, come se questo fosse l’unico scopo del venire a stare insieme».
Due elementi appaiono subito emblematici: 1) Diogene il Cinico segnalava il problema della nascita della polis, più in generale dell’assembramento «entro mura», fin da tempi antichi: dunque la questione travalica la cesura tra primitivo e moderno e concerne la civilizzazione stricto sensu. 2) Se seguiamo alla lettera l’osservazione di Diogene, ci rendiamo conto che in termini più o meno assoluti la sedentarietà è male e l’erranza bene, quasi a dimostrare che laddove l’uomo ha abdicato alla sua naturale vocazione al nomadismo – che tra l’altro è determinazione fondamentale del vivere animale – non ha potuto andare incontro se non a questa o quella forma di abbrutimento.
Il fenomeno di tale reciproco «maltrattamento» degli umani all’interno dei recinti spesso asfittici chiamati città è d’altronde sotto gli occhi di tutti e costituisce, in un certo senso, una delle questioni prioritarie nelle agende politiche sulla sicurezza e il degrado. Nelle odierne periferie, dove la densità demografica e quello che potremmo chiamare «ossigeno esistenziale» sono ridotti ai minimi termini, la condizione concentrazionaria, statica, degradante dell’immobilismo determinato dalla condizione sedentaria raggiunge livelli a volte abnormi, se non addirittura aberranti o delinquenziali. E questo, tra le altre ragioni, perché ovunque all’uomo sia negato il privilegio del respiro e dell’erranza, degli spazi sconfinati e delle praterie del nomadismo, quasi inesorabilmente si producono istinti di sopraffazione e sopruso, di malversazione e criminalità.
Chatwin ci ha dunque rammentato che nel nostro procedere verso la sedentarietà, nel nostro acclimatarci alla reclusione entro «mura» penitenziali, abbiamo perduto parte integrante della nostra umanità e forse la parte più nobile della nostra animalità.
Scrive a questo proposito l’autore della Via dei canti, altro inno indiretto alle culture indigene: «La civiltà esige una gerarchia sociale ed economica stratificata. Non c’è, purtroppo, nessun indizio che senza questa gerarchia essa sia capace di coesione». Anche un simile assunto è cruciale, suggerendo che laddove i rapporti sociali tra nomadi erano per così dire determinati da una «neutra orizzontalità», quelli tra sedentari civilizzati sono sanciti da una «discriminatoria verticalità», al punto, potremmo dire, che civiltà e città – che non a caso hanno la stessa radice etimologica – possono esistere solo nel segno della degradazione, vale a dire della trasformazione dell’uomo da «vicino» a «rivale», da coprotagonista dei destini del mondo ad avversario da soggiogare nelle strettoie gerarchiche della vita civica consociata.
RN40 Patagonia, Argentina
Tutto ciò che inerisce al mondo sedetario diventa allora a sua volta «sedentario», statico, in qualche modo privo di respiro. A partire dall’arte, a proposito della quale Chatwin scrive: «L’arte delle civiltà urbane tende alla staticità, alla solidità e alla simmetria. È disciplinata dalla rappresentazione del corpo umano e dalle conoscenze materialistiche attinenti all’architettura monumentale. L’arte nomade tende, in maggiore o minor misura, a essere portatile, asimmetrica, dissonante, irrequieta, incorporea e intuitiva».
Anche in questo caso ci rendiamo conto che le civiltà urbane sono soggette a un rischio particolarmente serio: quello di perdere lo spirito. Se l’arte nomade è tendenzialmente «incorporea», infatti, significa che è fondamentalmente «spirituale», che conserva in sé il proprio spirito e sentimento di sé, che non ha abbandonato lo spirito e non si è contratta nella prigionia della materia: quindi che non deve patire il maleficio della sedentarietà, quindi che può ancora godere di una precipua libertà fondamentale.
Possiamo pertanto concludere, con Chatwin – e prima ancora con Pascal – che la clausura civile è forse uno dei progressi più auolesionistici a cui l’uomo si è affidato. Scrive Chatwin ricordando l’autore dei Pensieri: «In uno dei suoi momenti cupi, Pascal dice che tutta l’infelicità dell’uomo proviene da una causa sola, non sapersene stare quieto in una stanza. “Notre nature” egli scrive “est dans le mouvement”». Parole sante, che valgono un ripensamento radicale del nostro oroglio di moderni.