Letteratura

L’attualità del “Mago” (e dei suoi abissi)

Thomas Mann raccontato da Colm Tóibín. Repressione o dissoluzione? Una questione sempre viva

  • 11 ottobre, 14:26
Edward Steichen, Thomas Mann New York 1934 stampa in gelatina d'argento.jpg
Di: Mattia Mantovani 

L’ossimoro, che accosta nella medesima locuzione due parole che esprimono concetti contrari, è forse la figura retorica più adatta a circoscrivere e restituire le incongruenze della realtà nelle sue molteplici forme e declinazioni. Un ossimoro come “celebre sconosciuto”, ad esempio, risulta molto utile per comprendere la vicenda umana e artistica di Thomas Mann, che certamente si è raccontato nelle opere e in maniera più diretta nei diari pubblicati postumi, ma la cui esistenza “disperatamente tedesca” –  sono sue parole – rimane tutto sommato un mistero piuttosto impenetrabile. 

Lo si è capito con molta chiarezza solo in tempi abbastanza recenti, anche in virtù della giusta distanza critica, quando il primo canale della televisione tedesca ha trasmesso in prima serata una docu-fiction sulla famiglia Mann che ha suscitato nuovo interesse non solo per babbo Thomas detto “Il Mago” (Der Zauberer: i figli e perfino la moglie Katia gli si rivolgevano in questo modo), ma anche per la storia complessiva della famiglia, che incarna per molti versi le altezze e gli abissi del Novecento tedesco. 

Il Mago, non a caso, è anche il titolo di una biografia romanzata che lo scrittore irlandese Colm Tóibín ha dedicato non solo (si vorrebbe dire: non tanto) all’autore de I Buddenbrook e La montagna magica, ma soprattutto alla sua famiglia. Tóibín, tra l’altro, ha una spiccata predilezione per la letteratura tedesca del Novecento, come dimostrano molti scritti saggistici e non da ultimo la sceneggiatura del film Ritorno a Montauk, scritta insieme a un regista del rango di Volker Schlöndorff. Il film, uscito nel 2017, riprende temi e suggestioni di Montauk, pubblicato nel 1975, il romanzo di Max Frisch più amaramente e scopertamente autobiografico.

“Il Mago” Thomas Mann è insieme a Goethe lo scrittore tedesco per eccellenza, mentre i Mann sono la famiglia “disperatamente” tedesca per eccellenza, almeno per quanto riguarda il “secolo breve”: Julia e Carla, le due sorelle di Thomas, morte entrambe per suicidio; l’aspro e in fondo mai composto dissidio tra Thomas e il fratello Heinrich sulla differenza tra la civiltà tedesca e la “civilizzazione” europea e occidentale; la perdita della patria e i lunghi anni di esilio (un esilio indubbiamente dorato, prima a Princeton e poi nel buen retiro di Pacific Palisades in California, ma pur sempre un esilio); un figlio di spiccata intelligenza, Golo, autore di penetranti studi storici, che visse la morte del padre «come una sofferenza e insieme un trionfo», due figli culturalmente dotatissimi, di raffinata e quasi morbosa sensibilità ma più o meno frustrati dal rigido e limitante ethos paterno (Erika e Klaus: lei con tendenze tribadiche; lui dichiaratamente omosessuale e morto suicida a soli 43 anni nel 1949); due figlie artisticamente meno dotate che hanno profondamente sofferto la presenza del padre (la negletta Monika e la pur amatissima Elisabeth).

Infine il figlio minore Michael, musicista di discreto talento e anch’egli, quasi a chiudere un cerchio, morto suicida nel 1977, dopo la pubblicazione dei diari nei quali il padre – che pure ha scritto pagine magnifiche sul “disordine e dolore precoce” dell’infanzia – aveva messo nero su bianco la propria mancanza di amore e perfino di affetto nei suoi confronti. Il pensiero corre inevitabilmente all’inqualificabile comportamento di Goethe nei confronti del figlio August, a dimostrazione del fatto che l’autore è l’opera, ma lo scrittore – Mann che inventa il personaggio del piccolo Nepomuk nel Doctor Faustus, Goethe che nel Faust inventa la meravigliosa scena di Gretchen nel carcere – non è l’uomo. Nella migliore delle ipotesi, ne è l’immagine stilizzata. 

Aveva quindi ragione il figlio ribelle Klaus quando parlò della famiglia Mann, non senza un certo sarcasmo, come di una vera e propria amazing family: «Che famiglia straordinaria è la nostra! In futuro si scriveranno libri su di noi, e non solo su ciascuno di noi». La biografia romanzata di Tóibín, che si basa su riferimenti storici e biografici precisi e fedeli, limitando i soli dialoghi alla fantasia e reinvenzione dell’autore, costituisce il perfetto compimento della profezia di Klaus. Bisogna sottolineare che il procedimento adottato da Tóibín è piuttosto audace, molto difficile da gestire sul piano narrativo, eppure è perfettamente riuscito. 

L’autore lo ha esemplificato con molta chiarezza in un passo dell’introduzione, con particolare riferimento alle scene ambientate a Venezia: «Come Mann ha usato la vita per creare il suo racconto, così io ho usato i luoghi di Venezia che conosco per la mia versione del soggiorno dei Mann. Li metto ai Frari a guardare il quadro dell’Assunta del Tiziano, poi li porto alla Scuola di San Giorgio degli Schiavoni, dove ci sono i quadri di Carpaccio. Faccio soffermare Mann in spazi dove mi sono soffermato io. Ho ancorato la mia scrittura al ricordo tangibile». Si tratta – e non è davvero un caso – del medesimo procedimento adottato da Frisch in Montauk, con una sola ma sostanziale differenza: Frisch lo ha adottato per reinventare letterariamente la propria vita.

Nelle pagine di Tóibín, “Il Mago” Thomas Mann si rivela l’ultimo grande esponente (“testimone” e non “protagonista”, per sua stessa ammissione) dell’idea tipicamente tedesca della Kultur intesa come quella “civiltà” che Mann aveva recepito dalla tradizione dell’Ottocento (da Goethe a Nietzsche, passando per Schopenhauer e Wagner) e della quale ha poi descritto il dramma, la tragedia e la fine. Questo Mann, che si profila soprattutto nella prima parte del romanzo, fino all’avvento del nazismo e alla fuga dalla Germania, è il cosiddetto Mann “ufficiale” o della “decadenza”, un tema che nelle sue opere torna in infinite variazioni e trova la massima e definitiva espressione ne La montagna magica, che a un secolo dalla pubblicazione rimane uno dei decisivi snodi letterari del Novecento.

Ma il tema, in realtà, percorre e sostanzia la sua intera produzione fino al tardo Felix Krull ed è già tutto esplicitato nell’inarrivabile capolavoro giovanile rappresentato dalla saga familiare dei Buddenbrook. Il Mann della “decadenza” è sostanzialmente il Mann della Kultur intesa come una “civiltà” che si identificava totalmente con la borghesia, con valori universalmente riconosciuti quali il primato dell’etica e dell’ordine, non da ultimo con la capacità di dominare i demoni dell’irrazionale e dell’informe. La sensibilità anglosassone di Tóibín coglie e restituisce davvero alla perfezione un simile aspetto. In questo senso, con Thomas Mann, la sua opera e la sua vicenda umana, ma anche coi disordini e dolori (precoci e non) della sua amazing family, si è davvero chiuso un grande ciclo storico e spirituale.

Si è detto spesso, non senza valide ragioni, che Mann è la continuazione di Nietzsche con altri mezzi. La sintesi – ineludibile quanto impossibile – tra repressione apollinea e abbandono dionisiaco alla dissoluzione, e cioè tra le istanze che sostanziano la vita ma la irrigidiscono e quelle che la liberano ma insieme la dissolvono, rimane infatti la cifra più autentica della sua vita e della sua opera. E’ il suo intrinseco fallimento, ma anche la sua incomparabile grandezza e attualità. Tóibín si fa apprezzare come ottimo biografo e insieme narratore di vaglia soprattutto nella seconda parte, che vede protagonista il Mann poco “ufficiale” e molto “demoniaco” venuto alla luce dopo la pubblicazione dei diari.

Il mago, per sua natura, è anche un impostore, ha fatto notare giustamente Tóibín sottolineando la voluta ambivalenza del titolo. Nei diari, infatti, il grande scrittore elusivo, equilibrato ed ironico, di una quasi irritante normalità anche nell’accostarsi alla patologia e alla tragedia (la sua gelida reazione al suicidio del figlio Klaus – «Non avrebbe dovuto fare una cosa simile a sua madre e sua sorella…» – è semplicemente sconcertante e perfino imbarazzante, ai limiti del disumano), si rivela invece un uomo fisicamente e psichicamente tormentato, che confessa le proprie inclinazioni omoerotiche, parla per intere pagine della sorvegliatissima ma non per questo meno vertiginosa “simpatia per l’abisso” (poi ereditata da Klaus, che l’ha portata alle estreme e fatali conseguenze), e infine si lamenta in maniera quasi infantile per i dolori fisici, soprattutto emicranie e mal di denti, e per le persistenti crisi depressive fatte di «lacrime e angosce» e tenute rigorosamente nascoste. 

Non si tratta, a dire il vero, di un Mann completamente sconosciuto, perché le sue opere, da Tonio Kröger in poi, abbondano di accenni a questo lato oscuro del “borghese sviato”. Ma nelle opere – anche quando l’impostura è del tutto evidente e costituisce l’ossatura della trama, come in Mario e il mago e nel Felix Krull – tutto è tenuto sotto controllo, “magicamente” orchestrato, gestito con inflessibile rigore e infine risolto in altissime figurazioni artistiche, mentre nei diari e nelle pagine del libro di Tóibín la componente demoniaca si presenta in tutta la sua dirompente immediatezza. Sotto una superficie apparentemente priva di increspature, l’ultimo grande borghese tedesco e l’ultima grande famiglia borghese tedesca si rivelano pieni di chiaroscuri, sfuggenti e in ultima analisi inafferrabili. 

Tutto comincia dove tutto finisce. Le prime righe del romanzo di Tóibín, ambientate a Lubecca nel 1891, col giovane Thomas e il fratello Heinrich che attendono sul ballatoio della casa in Mengstrasse la comparsa della madre, prefigurano tutta una vita e rimandano alle ultime righe, ambientate sempre a Lubecca, davanti alla stessa casa, più di mezzo secolo dopo. L’anno è il 1949: sulla via del ritorno da Weimar, dove hanno partecipato alle celebrazioni del bicentenario della nascita di Goethe, Thomas Mann e la moglie Katia sostano a Lubecca prima di tornare a Kilchberg. Thomas chiede alla moglie di aspettarlo a Travemünde, la spiaggia della città, e rende un ultimo saluto alla casa della propria giovinezza, dove ha ambientato I Buddenbrook e descritto la fine di un’intera civiltà. 

La casa è semidistrutta, ma «il sindaco aveva assicurato che presto avrebbero restaurato l’intero edificio. Lubecca, a quanto pare, adesso andava fiera della casa che aveva dato vita a un libro». La distruzione davvero irreparabile è tuttavia un’altra, perché Thomas vorrebbe rievocare il tempo perduto con tutti coloro che avevano condiviso gli spazi di quella casa. Ma non c’è più nessuno: «Forse c’erano altre storie che avrebbe ricordato, storie dimenticate da tanto, che aveva ascoltato in compagnia di chi aveva vissuto con lui in quella casa e adesso si era trasferito fuori dal tempo, in un regno i cui confini non gli erano ancora troppo chiari. Lanciò un altro sguardo alla casa e passeggiò per la città, diretto alla macchina che l’avrebbe riportato a Travemünde, dove Katia lo stava aspettando». Il vecchio incantatore/impostore ha esaurito il repertorio delle “magie”.

Il Mago è un romanzo “su” Thomas Mann che si legge come un romanzo “di” Thomas Mann, un po’ come la biografia di Goethe scritta dal compianto Italo Alighiero Chiusano, oppure le biografie che Stefan Zweig ha dedicato ai grandi personaggi della letteratura, in particolare Stendhal e Tolstoj. Non è il romanzo più bello, ovviamente, perché il pur bravo Colm Tóibín non è Thomas Mann, ma senza dubbio è il più sincero e schiettamente umano: il romanzo che lo stesso Mann, in fondo, per insincerità e mancanza di coraggio, o forse perché il tempo non sarebbe mai stato maturo, ha confinato nei diari e quindi non ha mai veramente scritto.

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