Letteratura

L’inverno precoce di Adalbert Stifter

Amatissimo da Nietzsche e Mann, detestato da Bernhard. Ritratto di un grande scrittore da riscoprire

  • 14.10.2024, 08:48
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Adalbert Stifter

Di: Mattia Mantovani  

Uno scrittorucolo, autore di romanzi tanto lunghi quanto indigesti nonché di racconti dolciastri e sentimentali, oppure una delle voci più alte della letteratura tedesca dell’Ottocento? I pareri a proposito di Adalbert Stifter sono piuttosto discordanti, almeno all’apparenza. Uno dei suoi lettori più attenti, Thomas Mann, citandolo non a caso in un lungo saggio dedicato a un romanzo dalle forti tinte demoniache come il Doctor Faustus, lo aveva ad esempio definito «uno dei narratori più strani, profondi, celatamente arditi e travolgenti della letteratura mondiale».

Il giudizio, indirettamente autobiografico (anche Mann era in definitiva un narratore piuttosto strano, profondo e celatamente ardito), individua la più intima sostanza della proposta poetica di Stifter e permette inoltre di situare all’interno della giusta prospettiva le considerazioni molto elogiative di un altro lettore di spicco, Friedrich Nietzsche, che vedeva in Stifter una specie di precursore spirituale e percepiva nelle altissime credenziali della sua narrativa un segnavia spirituale, addirittura un’indicazione di percorso per l’umanità a venire.

Il giudizio di Nietzsche è contenuto in una proposizione di Umano, troppo umano dove sono enumerati i cosiddetti “tesori della prosa tedesca” e viene posto in particolare risalto l’apice della narrativa di Stifter, il monumentale La tarda estate, pubblicato nel 1857: un romanzo di formazione sul modello del Wilhelm Meister di Goethe, ma apparentemente depurato di tutti i grovigli dell’interiorità e gli eccessi romantici. Nietzsche venerava La tarda estate perché l’idea della “mite legge” espressa nel romanzo, vale a dire l’adesione al fluire indifferente e sovrapersonale della vita, corrispondeva precisamente alla sua concezione di un’esistenza vissuta al di là di tutte le etichette, in un presente assoluto e screziato di incanto, “nobile solitudine” e sorvegliata malinconia.

Stifter ha esemplificato la “mite legge” in molte pagine de La tarda estate, ma questo è forse il passo maggiormente significativo: «Bisogna ricercare la vita che ci circonda da ogni parte, lasciandola agire in noi in ogni sua manifestazione, senza assoggettarla alla scienza, di modo che ogni cosa, inconsapevolmente e senza essere notata, lasci in noi la sua impronta. Osservate anche le cose più insignificanti, sì, gli avvenimenti da nulla della vita. Andate in città, cercate di ordinare gli eventi, venite poi in campagna, vivete un po’ in ozio, fate ciò che il momento e l’inclinazione vi ispirano, lasciate che le cose scorrano davanti a voi come sono, e come vogliono essere».

Il rispetto per le cose “come sono, e come vogliono essere” gli suggeriva la sottomissione a qualcosa di più grande che trascende le ambizioni, le passioni e le sorti dei singoli individui e perfino dei popoli. La vita vera, per Stifter, si identificava con l’eterno presente della vita quotidiana, che nel suo fluire e nella sua cadenza gli appariva molto simile al fluire millenario di un grande fiume. Lo si potrebbe forse definire un idillio privo di storia, eppure l’idea della “mite legge”, proprio nel suo programmatico rifiuto di tutte le scissioni storiche ed esistenziali, rappresenta una specie di messaggio utopico: «Quando il sole tramontò, udii il mormorio del fiume e vidi il suo dorato splendore serotino. Questo simbolo di generazioni passate, pensai, che aveva visto tanti destini grandi e potenti, guarderà anche il tuo piccolo destino, che si svolga bene o male, e quando si sarà già svolto da tempo assisterà ancora ad altre sorti».

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Adalbert Stifter: Il tempo del fiume (5./10)

Blu come un'arancia 08.07.2011, 04:00

  • Mattia Mantovani

Sembrerebbe quindi da rigettare il giudizio estremamente negativo di un altro lettore d’eccezione, il connazionale Thomas Bernhard, il quale in un celebre quanto controverso brano di Antichi maestri ha stroncato l’odiatissimo Stifter («un dilettante di provincia») dicendo tra l’altro che le sue opere stanno bene soltanto sui comodini da notte delle vecchie zitelle. Perché la “mite legge”, nelle sue varie forme e declinazioni, costituisce secondo Bernhard la pavida negazione di ogni “perturbamento” e di conseguenza una fuga dalla realtà, dalla “malattia mortale” dell’esistenza e dalle laceranti e insolubili contraddizioni del divenire storico.

Il brano in questione è da prendersi con un certo beneficio d’inventario, perché tutto giocato sulla tipica credenziale stilistica di Bernhard, la cosiddetta arte dell’esagerazione, ma il giudizio  –che prende spunto dalle parole di Nietzsche – rimane inequivocabile: «Altro che “maestro della prosa tedesca”. Stifter è un insopportabile fanfarone, ha uno stile raffazzonato e, ciò che è più deplorevole, sciatto, ed è inoltre l’autore più noioso e ipocrita di tutta la letteratura tedesca. La sua prosa è di un sentimentalismo e di una goffaggine così piccolo borghese da far rivoltare lo stomaco». La stroncatura, per dirlo con un eufemismo, riguarda non solo La tarda estate ma anche il romanzo storico Witiko e più in generale tutta la novellistica di Stifter.

L’esagerazione è portata volutamente all’eccesso, ma il giudizio è sbagliato. Con buona pace di Thomas Bernhard,  le opere di Stifter, a distanza di quasi due secoli, stanno infatti benissimo dappertutto, non solo sui comodini da notte delle vecchie zitelle (forse il posto meno adatto), perché un romanzo come La tarda estate e i racconti riuniti nelle due sillogi Studi (1850) e Pietre colorate (1853) non hanno perso nulla quanto a impatto e suggestione. Non solo per i temi trattati – la “mite legge” non nega il nulla e la tragicità della vita, li assorbe drammaticamente al proprio interno –, ma anche per la precisione e l’altissima qualità pittorica della scrittura (Stifter fu un esperto di botanica e mineralogia, nonché un pregevole paesaggista) e la capacità di costruire, modellare e gestire l’intreccio, i vari piani della scansione temporale, la dialettica tra la psicologia dei personaggi e le caratteristiche dell’ambiente che li circonda, il “cosa” e il “come” ricordati da Goethe. Racconti come Cristallo di rocca, Brigitta, Abdia, Tormalina, Il sentiero nel bosco, Due sorelle e Il vecchio scapolo, solo per citare alcuni titoli, costituiscono davvero il “tesoro della prosa tedesca” dell’Ottocento insieme alle novelle di Eduard Mörike, Theodor Storm e Gottfried Keller.

E’ un discorso che vale soprattutto per Il vecchio scapolo, che per certe sue connotazioni indirettamente autobiografiche, perfino con tratti profetici, è una delle sue narrazioni maggiormente rivelatrici, al punto che lo si potrebbe definire la sua opera “originaria”, perché contiene e spiega tutte le altre. Per capirlo, bisogna tuttavia riassumere brevemente la vita sentimentale di Stifter, che in sostanza fu un “vecchio scapolo” mancato o inconsapevole, se così lo si può definire. Nel suo caso, come in quello di un altro vecchio scapolo come Gottfried Keller, più che di una tarda estate si potrebbe insomma parlare di un inverno precoce, non privo di implicazioni e conseguenze.

Nato nel 1805 nella località di Oberplan in Boema, l’attuale Horní Planá nel territorio della Repubblica Ceca, tra i venti e i trent’anni aveva intrattenuto una lunga relazione con una ragazza di nome Fanny Greipl, ma la relazione non culminò mai nel matrimonio. Il corpulento Adalbert (era un mangiatore quasi bulimico e aveva una smodata predilezione per i piccioni arrostiti) sposò invece nel 1837 una poco avvenente modista, Amalia Mohaupt, con la quale trascinò stancamente un matrimonio guastato da una sostanziale quanto reciproca incomprensione. La coppia visse dal 1848 al 1868 in una casa di Linz, al numero 6 di Untere Donaulände, sulle rive del Danubio, e non ebbe figli. Una figlia adottiva, Juliane, si suicidò in giovane età gettandosi nelle acque del fiume. Nel frattempo, a partire dal 1854, il quasi cinquantenne Adalbert aveva cominciato a soffrire di disturbi nervosi e depressivi sempre più gravi e frequenti.

Il vecchio scapolo è tra l’altro doppiamente autobiografico, perché i due protagonisti/antagonisti rappresentano non solo la dialettica di gioventù e vecchiaia, ma anche i due snodi decisivi della vita di Stifter e il dolore di un presente che contiene un passato irrisolto. Stifter è infatti il giovane Victor, cresciuto in un villaggio della Boemia, che parte per la città, abbandona il mondo dell’infanzia e affronta l’ignoto. Per raggiungere la città, Victor deve percorrere un cammino tra i sentieri montani, dove fa visita a un vecchio zio, rinchiuso da anni in un antico monastero arroccato sull’isola di un lago alpino.

Il luogo è inospitale, l’atmosfera è funerea, intrisa di morte, Victor vorrebbe scappare, ma apprende dallo zio un segreto destinato a cambiare per sempre la sua esistenza. Di quale segreto si tratti, lo si scopre soltanto alla fine, quando Victor, come tutti gli eroi dei romanzi di formazione, si lascia alle spalle la prosa del mondo e convola a (forse) giuste nozze. Sembrerebbe il trionfo della “mite legge” che ricompone e assorbe tutte le incongruenze e contraddizioni. Però lo zio scapolo, nel quale è facilissimo riconoscere una proiezione di Stifter nella vecchiaia, siede «cupo e solitario sulla sua isola» e non partecipa alla cerimonia.

Bastano la trama e il suo svolgimento (ma bisogna ricordare anche Cristallo di rocca e la storia dei due bambini sperduti tra i ghiacci in una tempesta di neve, oppure la claustrofobica tetraggine di Tormalina, che anticipa Kafka di quasi un secolo) per capire fino a che punto sia fuori luogo parlare di Adalbert Stifter come di uno scrittore per vecchie zitelle. Ma nel caso de Il vecchio scapolo c’è un particolare ancora più inquietante. Del racconto esistono infatti due versioni: la prima, uscita nel 1844 in un almanacco letterario, è strutturalmente più lineare e ha uno stile diretto e immediato. La seconda, parzialmente rivista e riscritta alcuni anni dopo per la pubblicazione negli Studi, è per così dire più levigata e modellata, ma anche di minore impatto. Stifter scrisse la prima stesura del racconto quando non aveva ancora quarant’anni: a un certo punto, parlando della diffidenza e della paura dello zio, dice che quest’ultimo «si fa sempre la barba da solo, così che nessuno gli tagli la gola».

E’ un semplice dettaglio (assente nella seconda stesura), che tuttavia assume ben altro significato alla luce di quanto accadde quasi un quarto di secolo dopo. Nella notte tra il 25 e il 26 gennaio 1868, all’età di 62 anni, prostrato dalle costanti depressioni, alle quali si era aggiunta una cirrosi epatica dovuta con ogni evidenza agli eccessi alimentari, Stifter prese il coltello da barba e si tagliò la gola: morì due giorni dopo. La “mite legge” può anche contenerlo e mitigarlo, però non basta per cancellare il male di vivere, l’inverno precoce dei sentimenti e il lato oscuro dell’esistenza.

Thomas Bernhard non lo ha capito, oppure non ha voluto capirlo. Sicuramente lo ha capito (e probabilmente temuto, più ancora di Thomas Mann) un altro lettore di spicco come Hermann Hesse, che ha riassunto tutto il senso della “mite legge”, della proposta poetica e della vicenda umana di Stifter nella pagina iniziale delle Memorie di Harry Haller, alias il lupo della steppa: «Giornate moderatamente piacevoli, abbastanza sopportabili, giornate tiepide e passabili di un uomo non più giovane e malcontento, giornate senza dolori particolari, senza particolari preoccupazioni, senza crucci veri e propri, senza disperazione, giornate nelle quali si esamina pacatamente, senza agitazioni o timori, la questione se non sia ora di seguire l’esempio di Adalbert Stifter e di essere vittime di una disgrazia facendosi la barba».

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