Letteratura

La democrazia e l’angoscia

Guido Ceronetti e le sue riflessioni oblique sulla Rivoluzione Francese. Il “disprezzo muto” come “parola estrema”

  • 8 settembre, 13:32
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Di: Mattia Mantovani 

Troppo frettolosamente archiviato nei comodi, indolori e insapori paragrafi delle storie letterarie, e ricordato quasi esclusivamente per il Viaggio in Italia, Guido Piovene rimane invece un grandissimo autore del secondo Novecento italiano, che meriterebbe di essere rivalutato sia come narratore puro (tra i suoi romanzi, Le furie e Le stelle fredde non hanno perso nulla quanto a impatto e suggestione), sia come saggista di straordinaria perspicacia, costantemente capace di fornire una lettura “altra” dell’esistente. Lo si nota, in particolare, leggendo gli scritti contenuti nel suo libro maggiormente autobiografico, La coda di paglia, uscito nel 1962, che costituisce tuttora uno strumento fondamentale per capire non solo i (molti) vizi e le (poche) virtù dell’Italia del secondo dopoguerra, ma anche un certo cuore di tenebra dell’intero mondo occidentale.

Guido Piovene, con Sara Garau

Archivi RSI 28.07.2019, 12:35

Piovene ha avuto infatti il coraggio civile di esprimere alcune verità talmente indigeste da risultare quasi intollerabili, soprattutto perché lontanissime e antitetiche rispetto a quella che oggi viene definita la “Narrazione”. Una verità, in particolare: la democrazia, accanto a molti indiscutibili meriti e «qualche genere di giustizia», ha il tragico nonché terribile e (con ogni probabilità) involontario demerito consistente nel fomentare l’angoscia: «Perché ingrandisce a dismisura la nebbia enorme di persone di cui facciamo parte. Sono sue le trovate difensive più fortunate: l’uomo che rompe le catene, la sua rivolta, la liberazione, l’ascesa verso un grande futuro, il trionfo. Mentre procede però verso questo trionfo, la sensazione che ha di sé è di un essere sempre più meschino e avvilito della sua inesistenza».

Non è un caso che queste considerazioni, contenute nel libro del 1975 Verità e menzogna, costituiscano uno dei momenti più significativi della mostra La rivoluzione sconosciuta, l’originalissimo percorso che il compianto Guido Ceronetti (difficile esprimere quanto si sia avvertita la sua mancanza, in questi ultimi anni) compì a suo tempo, in compagnia degli attori del “Teatro dei Sensibili”, per ricordare in maniera per così dire obliqua o asimmetrica – e cioè con una scelta di testi molto eterogenei e all’apparenza non immediatamente riconducibili all’evento storico in questione – i due secoli della Rivoluzione Francese. I testi sono stati poi raccolti in un volumetto pubblicato da Adelphi.

Ceronetti prese spunto dall’anniversario della Rivoluzione Francese per sottolineare fino a che punto, due secoli dopo, i grandi principi libertari e democratici introdotti tra il 1789 e il 1793 si fossero snaturati a tal punto da produrre non solo l’angoscia evocata da Piovene, ma anche un sistema nominalmente democratico ma in realtà assolutamente astratto e dotato della diabolica capacità di metabolizzare ogni forma di dissenso e ogni voce dissonante, rendendola funzionale all’esercizio del potere. Libertà, certo, ma da cosa e per cosa?, voleva insomma chiedere Ceronetti, in maniera volutamente provocatoria, per mezzo delle parole di Piovene.

Incontro con Guido Ceronetti

RSI Cultura 17.08.2024, 13:07

  • RSI

La questione, inutile sottolinearlo, è estremamente scivolosa. Un paio di decenni prima rispetto a Ceronetti, intorno alla metà degli anni Sessanta, il drammaturgo di lingua tedesca Peter Weiss si era posto (e aveva posto idealmente ai lettori e agli spettatori) le medesime domande col testo teatrale La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat, rappresentato dalla compagnia filodrammatica dell’ospizio di Charenton sotto la guida del marchese de Sade, più conosciuto col titolo Marat-Sade, portando sulla scena il contrasto ideologico tra la persuasiva ma astratta eloquenza rivoluzionaria di Marat, che considera la realtà come qualcosa di totalmente plasmabile e modificabile, e la non meno astratta difesa dell’individuo sostenuta dallo scrittore libertino De Sade, che mette in dubbio con argomenti altrettanto persuasivi la modificabilità del mondo.

Si tratta di un tema che un altro grandissimo drammaturgo tedesco, Georg Büchner, aveva trattato addirittura nei primi anni Trenta del diciannovesimo secolo nello straordinario testo scenico Morte di Danton, sottolineando la necessità ma nello stesso tempo l’impossibilità della rivoluzione, di ogni rivoluzione. La rivoluzione, infatti, secondo il rivoluzionario Büchner (è a lui che si deve la celebre frase «Pace alle capanne, guerra ai palazzi!», contenuta nel  libello Il Messaggero dell’Assia), si inserisce per sua stessa natura in una sorta di spirale che la costringe a negarsi e, più nello specifico, a scindere lo scopo politico collettivo (la libertà generale) da quello individuale, costituito dall’emancipazione del singolo individuo.

Le rivoluzioni liberali e democratiche, di conseguenza, muovono da giusti principi, introducono la libertà generale ma in questo modo espropriano il singolo di quella concreta libertà che le rivoluzioni stesse vorrebbero realizzare (Büchner fa esprimere questa terribile verità al personaggio di Saint-Just, che in un eccezionale monologo paragona le rivoluzioni agli eventi meteorologici). E’ in questo terreno che affondano le proprie radici non solo l’astratto mito del “popolo”, ma anche l’angoscia democratica descritta in questo modo da Piovene: «Sentendoci annientati individualmente, cerchiamo di riprendere un po’ di forza lasciando noi stessi per vivere incorporati nell’umanità come un tutto» Genio assoluto e precocissimo, il pur profetico Büchner ragionava tuttavia a partire da un’innocenza, se così la si può definire, che nel corso del “secolo breve” è andata completamente perduta. Il Marat-Sade di Weiss, da questo punto di vista, si spinge oltre, verso gli orizzonti poi esplorati da Ceronetti nella mostra sulla “rivoluzione sconosciuta”.

Il testo di Weiss conobbe una fama di livello mondiale soprattutto grazie alla messinscena della Royal Shakespeare Company al Beck Theatre di Londra, per la regia di Peter Brook. Uno spettatore d’eccezione come Ennio Flaiano, perfettamente consapevole dell’ormai irrimediabile perdita dell’innocenza, la commentò in questo modo: «Peter Weiss nel suo dramma si pone il problema della rivoluzione, ossia se le stesse “verità” debbono valere per i capi e per la massa, se l’uomo non è per sua natura antirivoluzionario, se l’idealismo umanitario non porta fatalmente alla dittatura, e soprattutto dove possiamo segnare, oggi, i confini tra la ragione e la follia».

Alla fine dello spettacolo, quando gli attori che impersonano i pazzi del manicomio di Charenton (dove è rinchiuso De Sade e dove, sotto la sua guida, viene inscenato il processo a Marat) applaudono il pubblico e gli impongono addirittura il ritmo degli applausi, si è quasi tentati di supporre «che anche la platea sia fatta di spettatori che si fingono pazzi, oppure di pazzi che si fingono spettatori». Il che «non è da escludersi, dati i tempi», chiosa velenosamente Flaiano.

Icastico e lapidario nelle proprie argomentazioni e nel modo di formularle (qua e là si ha l’impressione di leggere uno dei suoi tanti elzeviri al vetriolo), ma nello stesso tempo anche sfumato ed elusivo, Ceronetti è altrettanto consapevole della perdita dell’innocenza, ma esprime una simile consapevolezza prevalentemente per interposta persona, servendosi dell’«elastico ponticello, sul Tempo, di pensieri e d’immagini insoliti».

La mostra-spettacolo sulla “rivoluzione sconosciuta”, che aveva lo scopo di «ricordare nel raccoglimento intorno al mistero della Storia il 1789 e le sue propaggini materiali ed occulte da allora ai giorni nostri», si apre infatti con un’epigrafe tolta dal Viaggio al termine della notte dell’amatissimo Céline: «Tutto quel che è interessante avviene nell’ombra, decisamente. Nulla si sa dell’autentica storia degli uomini».

Incontro con Guido Ceronetti

Laser 14.09.2018, 11:00

Da questa frase, che esprime una visione del mondo e una verità poetica alla quale Ceronetti ha più volte fatto riferimento, prende le mosse un percorso tanto disorientante quanto fascinoso. Come in un gioco enigmistico, si è idealmente invitati a tracciare una linea che unisce i tanti puntini sapientemente tracciati da Ceronetti: versi di Hölderlin, Foscolo, Alfieri, Carducci e Blake, solo per citarne alcuni, un estratto dallo Zibaldone di Leopardi (la meravigliosa pagina sull’impossibilità di “geometrizzare” la vita), da opere di Stendhal, Sade, Chamfort, Isaac B. Singer («L’homo sapiens diventerà così intelligente che non saprà più procreare, mangiare o andare di corpo, dovrà perfino imparare a morire», dal racconto Il dottor Beeber), il già ricordato Piovene e molti altri, per concludere addirittura col Tao-te-Ching («Chi vuole plasmare il mondo non ci riuscirà. / Il mondo, vaso spirituale, non si lascia plasmare. / Chi lo plasma lo distruggerà. / Chi se ne impadronisce lo perderà») e alcune Centurie di Nostradamus, liberamente rilette e interpretate da Ceronetti in una maniera gustosamente canaille

Ma Ceronetti non sarebbe totalmente Ceronetti se non ci conducesse anche in un territorio estremo, dove si incontrano  aforismi urticanti come quello di Napoleone («Non ci si può coricare nel letto dei re senza guadagnarci la follia. Io sono diventato pazzo»), quello tratto dal Journal intime di Amiel («Le masse saranno sempre al di sotto della media») e non da ultimo quello tratto da Il mio cuore messo a nudo di Baudelaire: «C’è in ogni mutamento qualche cosa d’infame e di piacevole insieme, che ha dell’infedeltà e del trasloco. Tanto basta a spiegare la Rivoluzione Francese». L’immagine della libertà che prende forma alla fine, una volta uniti tutti i puntini, non è propriamente entusiasmante, al punto che viene davvero da chiedersi: Libertà da cosa? E per cosa? Forse la libertà è perfino “sconosciuta”, come la “rivoluzione”: del resto, come ammoniva Piovene – e come, per suo tramite, ci ammonisce Ceronetti – in un trionfo possono anche annidarsi l’angoscia e l’avvilimento.

Il suo amico e compagno di tristezze e malinconie Giovanni Arpino lo aveva definito «una residua sentinella appostata sul crinale del mondo», annoverandolo nella ristretta cerchia di coloro che malgrado tutto continuano a «studiare per “sapere”». Così lontano, Guido Ceronetti, ma anche così vicino, di una vibrante e dolorosa vicinanza. I suoi detrattori lo hanno più volte rimproverato, sostenendo che era lucidissimo e impietoso nella diagnosi della malattia mortale che ci assedia negli inferni climatizzati del cosiddetto vivere civile, ma piuttosto vago e impreciso nell’indicazione di una cura. «Le società umane civilizzate – ha scritto nel 1983 in una memorabile pagina del Viaggio in Italia, inserendosi idealmente nel solco tracciato alcuni anni prima da Piovene – non sono più che aggregazioni di follia tenute insieme dalla paura e dalle coercizioni».

La paura e le coercizioni: la diagnosi è perfetta, oltre che attualissima (è soprattutto per questo motivo che si sente moltissimo la mancanza di Ceronetti). Ma c’è anche l’indicazione di una cura (un semplice placebo, forse, ma la questione è del tutto secondaria). I suoi detrattori, accecati da chissà quale ottimismo, evidentemente non se ne sono accorti, eppure è contenuta in una delle pagine successive. Tra le sue più belle, forse. Senza dubbio tra le più vere: «Quando mi sentirò soffocare dall’irreparabile, dall’impossibilità di dare ancora un dritto giudizio, oscuro o chiaro, sulle cose del mondo, tacerò, farò il muto come Saint-Just dopo l’arresto di Termidoro, fino al supplizio. La risposta del disprezzo muto, come parola estrema».

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