La donna che scrisse Frankenstein di Esther Cross, pubblicato da La Nuova Frontiera e tradotto da Serena Bianchi, è un fantasmagorico affresco della Londra vittoriana, oltre che un dettagliato ritratto di una figura complessa e affascinante che in quella Londra nerissima nacque e crebbe, temendola e allo stesso tempo interiorizzandone creativamente i temi e le ossessioni: Mary Shelley.
Non a caso il primo vertiginoso capitolo del libro si chiude con una sorta di epitaffio surrealista che riassume la scrittrice e la sua vocazione con il curioso assemblaggio di organi nel suo sepolcro. Scrive Cross: “La tomba di Mary Shelley è molte tombe insieme. Se qualcuno l’aprisse e, con i capelli, le ossa e le ceneri uniti dal sangue ormai invisibile, ricomponesse una figura, non otterrebbe un normale corpo umano, bensì una creatura diversa, una specie di mostro. Ripercorrere il cammino di questo strano corpo è il proposito di queste pagine.”
Infatti la narrazione prosegue, come una wunderkammer in movimento, mostrando giocosamente ogni tipo di orrore: dagli arti mutilati conservati negli armadi dagli studenti di medicina, ai freak show, ai trafugatori di salme timorosi del chiaro di luna, alle “convulsioni toniche”— la macabra danza dei cadaveri sotto impulsi elettrici che fu di moda in tutt’Europa— per culminare nel cuore dell’amato Shelley che, in un coincidere totale di materia e simbolo che è tipico dei veri scrittori, Mary conserverà sempre nella sua scrivania, avvolto in una poesia. Poco importa che quel cuore sopravvissuto al fuoco fosse più probabilmente un fegato o un altro tizzone di materia calcificata: ciò che conta è averlo ritenuto il cuore della persona che amava, e non c’era nulla di morboso in questa idea. L’autrice di Frankenstein nasce infatti in un’epoca in cui l’intimità con la morte era naturale, alla moda del lutto erano dedicati interi negozi e ben più del becchino veniva malvisto il chirurgo, per via dell’assenza di norme igieniche e dell’identificazione del medico con colui che si esercitava sulle salme trafugate, ottenute legalmente dalla prigione di Newgate o illegalmente dai trafugatori di cui sopra. E infatti il mostro che Mary crea in una serata tra amici con Shelley e Byron, prima che dal suo ingegno nasce dalla città stessa, dalla sua nebbia che nascondeva e poi rivelava nefandezze, e dalla sua stessa vita piena di tribolazioni.
Il cimitero di San Pancras è il fulcro geografico e tematico della narrazione: lì Mary imparò a leggere sulla tomba della madre— sua omonima— e lì ebbero luogo gli incontri clandestini con Shelley. Ed è infatti la morte il leit motif dell’esistenza della scrittrice, che della morte scrisse e che dalla morte dei figli fu ossessionata e devastata. In mezzo ci sono viaggi continui e c’è il mare, che le portò via anche l’amato Shelley, e tra le cui onde entrambi ebbero allucinazioni di altri morti. Questo è un romanzo allucinato e di allucinazioni, un mosaico di storia e leggenda, attraversato da un grande amore per l’Inghilterra di un tempo, le sue magie morbose e i suoi incanti, i suoi misteri, alcuni dei quali restano meravigliiosamente insondabili.
“La donna che scrisse Frankestein” di Esther Cross
Viola Di Grado, Mirador 07.12.2024, 14:30
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