Nella seconda metà degli anni ‘90 sui treni regionali le porte dei cessi sbatacchiavano sempre. Me lo ricordo bene, perché mi sedevo sulla panca davanti ai bagni se il vagone era zeppo. Facevo le superiori a Lugano, allora, e in quell’angolo consumai parte delle mie prime, importanti letture. Fra queste – perfetta in un simile quadretto – spiccava La nuvola in calzoni di Vladimir Majakovskij (Bagdady, 1894 – Mosca, 1930).

Era un’edizione Marsilio a cura di Remo Faccani (la stessa, presumo, oggi disponibile nella collana bianca dell’Einaudi) che a furia di essere letta mi si spaccava letteralmente fra le mani. È stato attraverso quel librino che si verificò in me un fenomeno fondamentale, che andava oltre la mia volontà e che, in un secondo tempo, contraddistinse l’andamento delle mie scelte: mentre sfogliavo e risfogliavo quelle pagine, senza che lo volessi imparavo il testo a memoria. Era qualcosa che mi superava, che avveniva e di cui non avevo controllo. Quello che seguì fu naturale: con un paziente Giuseppe Valenti, attore e insegnante che, sul territorio ticinese, ha visto passare nelle sue classi di recitazione molti di quelli che sono oggi dei professionisti della scena, “allestii” (“allestii” si fa per dire) come “saggio di fine anno” il testo cardine della produzione prerivoluzionaria del più celebre poeta russo del primo ‘900.
Se racconto questo è perché, da un lato, sempre più mi rendo conto di quanto l’intuizione e i veri incontri – incontri in senso lato – siano determinanti nella formazione di una persona, dall’altro perché nonostante il passare degli anni la figura e l’opera di Majakovskij non hanno perso di fascinazione ai miei occhi.
Certo, a lungo il nome di Majakovskij è stato un ingombro che ha messo in ombra altri poeti dell’avanguardia russa a noi meno noti (penso, naturalmente, al geniale Velemir Chlébnikov, al quale Angelo Maria Ripellino dedicò un’importante antologia einaudiana nel 1968). Ciò però non toglie che, oggi, se un diciassettenne attratto dalla poesia mi chiedesse cosa leggere, fra i libri indicati ci sarebbe la raccolta A piena voce (Mondadori, 1989) e la sopraccitata nuvola.
Ma cosa contraddistingue i versi di questo autore, la cui morte per mano propria assunse nella Russia di allora un significato simbolico profondamente inquietante? (Non dimentichiamo che altri, come Sergej Esenin e Marina Cvetaeva, lo avevano anticipato o seguito, mentre i restanti erano destinati a essere incarcerati, uccisi o perseguitati).
Come scrisse Majakovskij stesso, la sua è una poesia fatta di pezzi di strada, insegne, ciminiere. Una poesia essenzialmente urbana, che si nutre dell’oralità e del gergo ed è pensata, soprattutto, per essere detta in pubblico. Se da questo punto di vista è stato evidenziato quanto, ad esempio, essa abbia influito su un movimento come quello della Beat Generation, si potrebbe anche sottolineare quanto a questa si avvicinino lo Slam Poetry e il rap: «Conoscete il francese. / Sapete dividere. / Moltiplicare. / Declinare mirabilmente. / E va bene, declinate pure! / Ma dite, / e cantare d’accordo con una casa, / lo sapete? / La lingua dei tram la capite? / (…) Io imparavo l’alfabeto dalle insegne, / sfogliando pagine di ferro e di latta».
È, inoltre, una poesia sì tragica e dolorosa, carica di un’esasperata forza vitale in cui si annida una volontà autodistruttrice, ma pure piena di gioco, sfrenata ironia e divertita arroganza. In parole povere – mi sia concesso il termine per Majakovskij calzante – non si tratta di una poesia pallosa, che si impone al lettore col dominio dell’erudizione ma piuttosto attraverso quel conoscere «la forza delle parole» che caratterizza ogni vero poeta. Il suo è un piglio monologante-narrativo, con un gusto esagerato per l’iperbole, che conduce chi legge attraverso storie in cui protagonista è un io – quell’io che il poeta percepisce insistente e sproporzionato, che vorrebbe trasformarsi in un «noi» senza mai veramente riuscirvi – lacerato dall’insoddisfazione amorosa e dalla furia storica (non a caso Io fu anche il titolo della sua raccolta d’esordio del 1913).
E quale uomo (altro titolo majakovskijano) stava invece dietro alla foga di quei versi? Nato in un villaggio della Georgia che oggi porta il suo nome (non si contano in Russia il numero di scuole, edifici o enti a lui dedicati), suo padre era un ispettore della Guardia Forestale alla cui morte la famiglia si trasferì a Mosca, dove la madre fu costretta a fare l’affittacamere e il figlio, assieme alle sorelle, a eseguire alcuni lavori saltuari. Fu in quel periodo che lesse Marx e Lenin, per poi aderire all’ala bolscevica del Partito socialdemocratico.
Iniziarono quindi gli arresti legati alla sua attività sovversiva: viene imprigionato tre volte, perché sorpreso in una tipografia clandestina e in possesso di un’arma da fuoco: «A me (...) / ad amare / l’hanno insegnato / nelle carceri di Butyrki. / (…) mi innamorai / dallo spioncino della cella 103, / di fronte all’«Impresa di pompe funebri». / Chi vede tutti i giorni il sole / dice con sufficienza: / «Cosa saranno mai quei quattro raggi»!. / Ma io / per un giallo illuminello / sopra un muro / avrei dato allora qualunque cosa al mondo». Interessato alle arti visive, dopo le scarcerazioni si iscrisse all’Istituto di Pittura, Scultura e Architettura di Mosca, dove conobbe il pittore David Burljuk, il quale incoraggiò la sua propensione alla poesia.
Nel 1913, con la sua firma al manifesto del cubofuturismo, Majakovskij entra quindi a gamba tesa nel mondo dell’avanguardia, imponendosi immediatamente per genialità ed estro: «A un tratto impiastricciai la mappa dei giorni prosaici, / dopo aver schizzato tinta da un bicchiere», scrisse quell’anno. «E mostrai su un piatto di gelatina / gli zigomi sghembi dell’oceano. / Sulla squama d’un pesce di latta / lessi gli appelli di nuove labbra. / Ma voi / potreste / eseguire un notturno / su un flauto di grondaie?».
Nel 1914, sempre coi futuristi, intraprese un’importante tournée nella Russia meridionale e la sua fama iniziò a crescere. Un anno dopo incontrò quella che era destinata a essere la donna della sua vita: l’affascinante (e controversa, viste le rivelazioni che successivamente la indicarono vicina alla polizia politica) Lili Brik. Moglie di un importante critico letterario, Lili era un’intellettuale brillante, nella cui abitazione passavano i massimi esponenti della cultura dell’epoca. Majakovskij la conobbe mentre ne corteggiava la sorella e, innamoratosene, si trasferì a casa sua dando il via a un singolare ménage à trois (tra l’altro, sebbene non fosse ispirato a lei, le dedicò proprio la summenzionata Nuvola in calzoni dopo avergliene lette delle parti).
Venne la Rivoluzione e il nostro ne fu entusiasta. Rispose all’appello che chiedeva di «avvicinare le grandi masse all’arte» indossando un nero cilindro e una «gialla blusa» come divisa alle pubbliche letture che andò moltiplicando nei caffè, per le strade e sulle piazze. In breve tempo divenne una celebrità: le pubblicazioni si susseguivano e la sua fervente attività creativa approdò in teatro attraverso la collaborazione con Vsevolod Mejerchol’d – il geniale attore-regista che di lui diresse Mistero buffo, La cimice e Il bagno. A quel punto il fenomeno Majakovskij esplose definitivamente, tanto che risulta difficile tener conto delle mille attività che lo vedevano coinvolto nel Commissariato del Popolo per l’Istruzione, nel mondo del cinema, sui giornali e nelle riviste e in lunghi viaggi che lo portarono in Europa, America Latina e Stati Uniti.

Com’è noto il “treno-Majakovskij” nella sua disperata corsa dentro alla vita finì per deragliare quando, dopo altri innamoramenti disperati, stagioni di identificazione al regime ma pure di conflitti e pressioni censorie per mano dei burocrati, il 14 aprile del 1930 il poeta pose fine alla sua vita («Mi chiedo ancora ed ancora / se non sia meglio mettere il punto / d’un proiettile all’essere mio», aveva scritto in uno dei moltissimi testi in cui vagheggiava il proprio suicidio). In una celebre poesia, Boris Pasternak descrisse perfettamente lo shock provocato al popolo da quel gesto annunciato: «Non ci credevano, pensavano: fandonie, / ma lo apprendevano da due, da tre, da tutti. / Si mettevano a fianco nella riga / del suo tempo fermatosi di botto / case di mogli di impiegati e di mercanti».
Quello che agli italofoni è forse un po’ meno noto è la l’ampiezza della produzione di questo famoso poeta dalla breve vita, poiché dopo la pubblicazione dell’intero corpus letterario da parte degli Editori Riuniti negli anni ‘70 i suoi versi sono stati divulgati (e anche molto) specialmente attraverso antologie brevi. Sarà per questo che dal 2012 l’editore “PGRECO – I grandi classici introvabili e novità controcorrente” ha scelto di «riaprire il discorso su Majakovskij» pubblicandone l’opera omnia: un buon modo per rendere nuovamente disponibile un vero e proprio continente