Uno dei fenomeni più emblematici di questi anni è il progressivo allineamento della cultura al presente. O per meglio dire, al contingente. In ambito letterario, questo processo si esprime nel sempre più evidente allineamento del romanzo al giornalismo. Ovvero, laddove la cultura è sempre più cultura dell’immediato, cultura dell’attuale, cultura del tempo presente, la letteratura è sempre più letteratura cronachistica e del transeunte. E questo, naturalmente, a discapito dei temi «assoluti» con cui tradizionalmente si è confrontata: l’uomo, il tempo, la morte, l’amore, la guerra e via discorrendo.
Il primo effetto di questo curioso ribaltamento di prospettive è che, se un tempo la letteratura rompeva con il contingente, oggi lo conferma o al più lo approfondisce. E se un tempo si presentava come disciplina dell’alterità, dell’utopia, del sogno, della diversità, oggi si presenta assai più volentieri (o assai più spensieratamente, potremmo dire) come supinamente inquadrata nel mondo del giornalismo.
Ne abbiamo infinite riprove, soprattutto nel panorama della narrativa italiana. Quasi sempre i romanzi di questi ultimi anni si occupano di temi e non di problemi o essenze, quasi sempre inseguono riflessioni sulla scia di fatti e tematiche del quotidiano, del contingente e non dell’umano in sé. Basta sfogliare i cataloghi degli editori: storie vere (si dice spesso con incomprensibile orgoglio), storie di bullismo, di immigrazione, di violenza sulle donne, di malattie, di droga, di mafia, di questo o quel dissidio familiare e via elencando. Manca, quasi sempre – manca, per così dire, drammaticamente – il problema umano in quanto tale. Manca quello per cui la letteratura è nata ed esiste (o vorrebbe continuare a esistere): la riflessione estetico-filosofica sul senso dell’esistenza.
Un caso interessante di questa contiguità sempre più marcata tra cronaca e narrativa è quello della pur apprezzabile Michela Murgia, che se non cade nel tranello riduzionistico di una narrativa «a tema», ovvero di una narrativa «a compitino», si muove nondimeno su questo insidioso crinale: l’assoluto della morte da una parte (o della morte e della vita) e il relativo (nonché piuttosto recente) dilemma che accompagna il dibattito sul «fine-vita». Nel suo racconto più noto, in particolare, Accabadora (Einaudi, 2009), accanto a mirabili pennellate sull’umano, la Murgia indulge spesso, nel complesso, a una narrativizzazione di quanto già sappiamo dal giornalismo, dalla cronaca o dalla semplice conoscenza del mondo ricavata dagli organi di informazione. Si parla, certo, di realtà sarde in larga misura non troppo conosciute, ma in definitiva frequentate quanto basta, nell’essenza, da qualsiasi rubrica di approfondimento del giornalismo nazionale: prefiche, un persistente primitivismo di provincia, i figli in vendita, le faide tra proprietari terrieri eccetera. Insomma, si parla di ciò che già sappiamo o sul quale abbiamo già potuto misurare il nostro pensiero. Ma soprattutto si parla – con quel minimo sindacale di approfondimento che distingue, in quest’ultimo ventennio, il romanzo dal servizio giornalistico – di questioni che di letterario in sé conservano solo qualche risonanza: in questo caso, appunto, portando allo sguardo del lettore, tra gli altri, il problema dell’eutanasia.
Ora, che la questione della libertà di disporre della nostra vita e della nostra morte sia di grande rilevanza siamo più o meno tutti d’accordo. Ne hanno scritto e discusso in molti, da Flores d’Arcais a Augias a numerosi altri. Ma la domanda più dirimente da porsi è: a prescindere dalla forma con cui si racconta un simile tema, quanto pertiene nell’intimo, infine, un contenuto tanto poco universale e assoluto quale il «fine vita» con le finalità euristiche quintessenziali del romanzo? La risposta è probabilmente che vi pertiene solo in certi lettori e soltanto per rapporto a una specifica sensibilità.
In effetti, rispetto alle preoccupazioni che furono di Kafka, Mann, Tolstoj, Proust e Céline, la questione si pone su un piano piuttosto residuale, che tuttavia (forse purtroppo) sembra sempre essere sempre più frequentemente e sempre più «giornalisticamente» nelle mire della narrativa. A parte giallistica, noir e thriller – che perlomeno dichiarano in partenza la loro vocazione a «intrattenere» – la tonalità della letteratura cosiddetta «alta» rischia non di rado di sconfinare nella letteratura «giornalistica», al punto che parla sovente di ecologia, di traffici di armi e di stupri con la stessa disinvolta verve cronachistica con cui di tali questioni si occupano i programmi televisivi pomeridiani: con l’ovvio risultato che la letteratura finisce per muoversi troppo spesso in subordine al giornalismo e in ottemperanza ad aspettative e gusti di quell’audience di «voyeurs del contingente» che nei confronti degli «assoluti» nutre un interesse praticamente nullo.
Fenomeno che si potrebbe definire insidioso, visto che la letteratura è per sua essenza confronto con gli assoluti. Ma che evidentemente, in tutti i sensi del termine, paga. Come talvolta accade nelle pagine della pur valente Murgia, della quale fra qualche anno non è escluso che possa restare, accanto al valore linguistico, un’eredità, in termini euristici o conoscitivi, non del tutto dissimile da quella che lasceranno programmi di cosiddetto approfondimento come «La vita in diretta» o «Chi l’ha visto?»
Chi si interroga oggi su un universo confrontato con l’implosione dell’etica, del capitalismo, della natura e di ardue questioni siffatte, delle quali la massaia di Voghera preferisce non occuparsi (perché, si sa, la letteratura che conta fa sempre male allo spirito e allo stomaco), rischia pertanto di dover riconoscere, in futuro, che l’idea attuale di letteratura sta sempre più diventando quella di sollevare dalle angosce del quotidiano o cullare nell’indistinto mare della distrazione e della conferma. Mentre forse, malgrado la passione transeunte che simili problematiche suscitano, il suo essere fondamentale e il suo senso ultimo sono eminentemente altrove, dove la cronaca può al più suggerire ma mai dettare l’agenda.
Solitudine
Cliché 15.03.2023, 21:55