Non mi sorprenderei se leggendo il titolo dell’articolo molti dei nostri lettori si chiedessero “Luigi Di Ruscio, e chi è? Mai sentito”, poiché Di Ruscio è una figura rimasta a lungo nell’ombra, sfiorando appena i margini del panorama letterario italiano. La sua opera, seppur apprezzata da una ristretta cerchia di intellettuali e critici dei suoi tempi, è rimasta sconosciuta al grande pubblico. Quando poi capita di imbattersi nel suo lavoro, magari com’è successo a me qualche anno fa, inciampando casualmente in uno dei suoi versi pubblicati in un’antologia di poeti pressoché negletti, ecco che non si può che restarne colpiti.
Eppure, non senza una certa ironia, il ruolo marginale che occupa ancora oggi nel panorama italiano ben si addice a Di Ruscio, che ai margini ci è sempre stato, in vita come nella sua opera. Ed è proprio questa una delle caratteristiche principali del suo lavoro: la narrazione dell’aspra esistenza di un uomo che non si sente appartenere, né alle circostanze della vita, né ai luoghi in cui vive, né tantomeno alle persone che gli stanno attorno.
Luigi Di Ruscio diventa dunque la potente voce narrante di un’epoca e di un importante fenomeno storico e politico: l’emigrazione degli operai italiani della metà del Novecento, recati all’estero in cerca di migliori condizioni lavorative.
Non avendo raggiunto un gran successo letterario su di lui non si è mai rivolta l’attenzione mediatica. Tuttavia possiamo volgere la nostra attenzione alla sua opera letteraria, per comprendere e comporre un ritratto della sua persona, anche dal punto di vista biografico, poiché il protagonista inscindibile della sua opera poetica quanto di quella di prosa è proprio lui, l’operaio migrante. Di Ruscio, che va a scuola solo fino alla quinta elementare ma che studia per conto suo i classici italiani e greci, si esprime attraverso una retorica cruda, intima e sincera, che rende il suo lavoro così particolarmente pertinente.
Infanzia e gioventù
Luigi Di Ruscio nasce nel 1930 a Fermo, nelle Marche. Vive una gioventù marcata dagli stenti, in una comunità di sottoproletari. È un bambino solo, introspettivo, irrequieto. È l’autore stesso a lasciare trasparire qualche immagine della sua infanzia, in una poesia particolarmente evocativa in cui esprime in questo modo la frugalità e la solitudine della sua gioventù:
Avevo cinque anni
una vecchia mi fece capire
perché nessuno mi teneva sui ginocchi
mia nonna che mi teneva per mano non mi difese
né per consolarmi mi strinse la mano
per questo sono andato solo sui fiumi
l’acqua non mi è servita per specchiarmi
ritornavo a casa per non dormire sul greto
a quell’età la fame fa essere pazzi
fa divenire presto adulti
e tutte le erbe che le capre hanno brucato
ho imparato a cogliere
ho preso il gusto del sapore amaro
questo è stato il mio latte
e perché rubavo con calma avevo i frutti più bellissimi
andavo solo per non essere scoperto
al mio odore i cani non hanno abbaiato
e nessuno può condannarmi
se presto mi sono adoperato a negare iddio
(Da Non possiamo abituarci a morire, 1953)
Gli unici riferimenti al contesto famigliare, di norma estremamente importanti per un bambino, ci arrivano nella forma di accenni alla nonna, ma che rimane una figura in cui il Luigi bambino non riesce a trovare rifugio. Interessante notare come l’autore non accenni mai alla madre nella sua opera. Il padre invece appare in qualche verso, saltuariamente, anche lui come una figura distante e cattiva, come sentiamo da questi versi:
di umano in mio padre vi è solo questo astratto schifo
questo assalto dei sensi della nullità che mio padre affoga
/…/
e la sbornia gli porta una sorta di furore disperato
e scaraventa piatti e bicchieri contro il muro
e si condanna in questo furore e nel tacere
e nella fatica che è una battaglia già perduta senza senso né scopo
(Da Le streghe si arrotano le dentiere, 1966)
Dobbiamo immaginarci che socialmente, la vita in una piccola città come Fermo durante il ventennio fascista (1922 – 1943) era dominata dal regime. Ciò significava che i lavoratori erano visti come “soldati della produzione”, chi era abbastanza fortunato da trovare un lavoro veniva macinato dal meccanismo bellico e sfruttato alla stregua di una bestia da soma, subordinato all’idea di nazione e di lavoro collettivo. Nel dopoguerra Luigi adolescente si trova a vivere per strada, alla disperata ricerca di lavoro. Anche questa realtà ce la descrive con abilità, senza filtri, lasciando che il suo stato d’animo si riversi sulla carta.
Sono senza lavoro da anni
e mi diverto a leggere tutti i manifesti
forse sono l’unico che li ragiona tutti
per perdere il tempo che non mi costa nulla
e perché sono nato non sta scritto in nessuna stella
neppure dio lo ricorda.
Gioco alla sisal
e ragiono sulla famosa catena
ma ormai poco mi lascia sperare ai miracoli
sarebbe meglio berli
i soldi che gioco per sperare un poco.
Tutti i giorni vado all’ufficio del lavoro
ed oggi vi erano due donne a riportare il libretto
ma le hanno consolate
gli hanno detto che per loro è più facile
potranno sempre trovare un posto da serve.
Poi sono rimasto sino alla sera ai giardini pubblici
una coppia si baciava
anch’io su quel sedile ho avuto una donna
ora ho lo sguardo di una che vorresti
che scivola dai capelli alle scarpe
per scoprirti che sei uno straccione.
Lavoravo poi tornavo a casa sulla bicicletta, pieno d’entusiasmo
dormivo di un sonno profondo
e alle feste con la donna
che ho lasciato per farla sempre aspettare
ora l’insonnia sino all’alba
poi un sonno pieno d’incubi.
Avevo pensato di farla finita
se resisto è per la speranza che cambierà
ma ormai ho qualche filo bianco
senza una sposa e un figlio
solo questo vorrei questo sogno da pazzi.
(Da Apprendistati , 1978)
Reietto, disoccupato e, come si definisce lui stesso, “vecchio a ventitré anni” trova nella scrittura una possibilità di redenzione, fin da giovanissimo. Il suo stile si rivela da subito libero da fronzoli e abbellimenti di sorta. Sulla carta Luigi riesce a dare voce a tutto quel doloroso silenzio che si porta addosso. Il suo gesto creativo si rivela istintivo, graffiante, arrabbiato. Parole come urla, morsi e graffi. La sua è una scrittura non contaminata dagli studi letterari, e seppure talvolta erra grammaticalmente diventa i denti e gli artigli con cui Di Ruscio affronta quella dura realtà che nel quotidiano così tanto gli sfugge. Ecco dunque che già nel 1953 viene pubblicata la sua prima raccolta di poesie Non possiamo abituarci a morire che viene accolta con interesse da autori importanti come Pier Paolo Pasolini, Salvatore Quasimodo e Franco Fortini. Tuttavia l’opera non basta a elevarlo dalla condizione di fame e disperazione in cui vive le sue giornate.
L’emigrazione
Invaghito dalle promesse del “paradiso socialdemocratico” (così lo definisce lui stesso) e deluso dal suo “dannato paese italico” Luigi sogna, come tanti in quell’epoca, l’emigrazione negli Stati Uniti. I pochi soldi che riesce con fatica a racimolare, tuttavia, non gli bastano per potersi permettere il viaggio transoceanico, si rassegna dunque, come molti altri italiani in quegli anni, ad emigrare ad Oslo, in Norvegia, nel 1957.
La Oslo che accoglie Di Ruscio è una capitale in rapida evoluzione, seppure rispetto ad altre città europee era ancora di dimensioni piuttosto contenute accoglieva i nuovi immigrati con una promessa di cambiamento.
Poco dopo essere arrivato in Norvegia Luigi trova lavoro come operaio in una fabbrica di chiodi, la Christiania Spigerverk, dove lavora per oltre quattro decenni, fino al pensionamento. La fabbrica da un lato gli offre stabilità economica, ma dall’altro lo tiene impegnato in mansioni fisicamente estenuanti ed estremamente ripetitive, facendolo piombare in un’esperienza di grande alienazione. La Christiania Spigerverk diventa dunque un luogo amato ed odiato al contempo che segna grandemente la sua esperienza di vita e si trasmuta così nella sua voce letteraria. Nelle numerose poesie, nonché nel romanzo Palmiro la fabbrica diventa metafora del mondo moderno, che imprigiona l’essere umano e lo riduce alla stregua di un ingranaggio della macchina sociale. Tradito dal proprio paese e tradito nuovamente da questo nuovo paese da cui non si sente mai realmente accolto e dalle sue promesse sociali che si rivelano vane continua a dedicarsi alla scrittura come a una possibilità di redenzione.
Ovunque l’ultimo
per questa razza orribile di primi
ultimo nella sua terra a mille lire a giornata
ultimo in questa nuova terra
per la sua voce italiana
ultimo ad odiare
e l’odio di quest’uomo vi marca tutti
schiodato e crocifisso in ogni ora
dannato per un mondo di dannati.
(Da Poesie scelte, 2019)
Una vita ai margini
Ad Oslo si sposa con Marit Hirsti (o Mary, come la chiama lui), una donna norvegese con cui ha quattro figli ai quali sceglie di non insegnare mai l’italiano. In casa Luigi si ritaglia un luogo in una soffitta buia, dove passa le notti a battere come un dannato sulla sua Olivetti, scrivendo centinaia di poesie in italiano che vivono nell’oscurità del cassetto della scrivania di quel luogo buio, senza trovare interlocutori, in una completa marginalità geografica quanto editoriale.
Ed è così che Luigi passa la sua vita, volontariamente isolato dal mondo editoriale italiano (con cui è passivamente in contatto tramite qualche rivista a cui è abbonato), alienato dalla società norvegese di cui non si sente parte integrante e in qualche modo estraniato anche nell’intimità della propria famiglia. Incapace di fare altro, vive in ogni ambito della sua esistenza un senso di sradicamento, distanza e l’inevitabile rancore che ne proviene.
Nella poesia assume il ruolo di osservatore esterno della propria vita e commenta ora con furore ora con schifo la propria condizione esistenziale, riuscendo tuttavia con abilià ad allargare la propria esperienza di vita all’esperienza di ogni essere umano.
Da Apprendistati (1978)
battere su questa macchina da scrivere sino ad ammattirli battendo scrivendo
approfondire una poesia significa voler bucare la carta
scartare le velleità e non rimanere neppure il buco sulla carta
non c’è nulla da rimpiangere l’unica dignità è essere fuori e contro
ecco la pietra seminarci sopra anche quando le pietre germoglieranno
tutto provocava sbalordimenti bagliori
caricato in mondi di estrema lucidità e ottimismo
battendo sul cuneo sino a far schizzare la creaturina
vetri metalli plastiche alzo un braccio alzo una gamba
ma mentre scrivo posso solo scrivere le provo tutte
piombano i diti sulla tastiera troppa precipitazione nell’inseguire l’ispirazione
le levette dell’olivetti lettera ventidue s’intrecciano
su tale carta scrivere e ripetermi tutto mentre mi faccio la barba
quando preparo la faccia per uscire in queste strade
finita una produzione ne inizia un’altra il sottoscritto scritto anche sopra
con le fedi quasi sempre perse c’è una ultima fede
in qualcosa di vegetale e vacuo fede nel non poter morire arrotato
dondolare tra le due fedi opposte e le salto tutte e due
sono certo che esisto anche se le prove sono vacue e se preciso scompaio
per essere un sopravvissuto bisogna essere esistiti prima e anche dopo
fede vacua che mia moglie esiste mi ci metto in contatto e rimane incinta
cercare l’invenzione che casualmente centri me stesso
non esiste un centro ogni colpo mi colpisce in pieno
sono capovolto non voglio raddrizzarmi.
Una morte morbida
Luigi Di Ruscio muore nel 2011 a Oslo, città in cui ha vissuto per oltre cinquant’anni, e in cui ha lavorato come operaio alla fabbrica di chiodi per oltre quaranta. Nonostante la sua vita relativamente marginale la morte di Di Ruscio non passa totalmente inosservata nel panorama culturale italiano e anzi, il suo decesso segna la riscoperta della sua opera che viene riscoperta, rivalutata e ripubblicata. Il successo maggiore del suo lavoro viene infatti raggiunto nel 2019 attraverso la raccolta Poesie scelte della casa editrice Marcos y Marcos.
Luigi Di Ruscio va così ad unirsi a quella cerchia di artisti e intellettuali che dopo una vita di stenti raggiungono la notorietà solamente dopo la morte. Tuttavia, ciò che è affascinante in questo caso è proprio che per Di Ruscio la notorietà non è mai stata un obiettivo, o perlomeno non un obiettivo espresso coscientemente. La verità è che probabilmente era comunque troppo abituato a vivere inosservato, circondato dalla fitta coltre di una solitudine abilmente costruita nel corso di tutta una vita, per cercare veramente l’approvazione di quella società che osservava da un angolo, e che commentava con sagacia, ironia e disprezzo.
Rimane tuttavia una voce unica, un poeta potente quanto ferito, nobile quanto marginale. Sicuramente una voce da non dimenticare.
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