Letteratura

La paura di esistere

Il “Journal intime” di Henri-Frédéric Amiel: il racconto “oceanico” di una vita non vissuta

  • 18 febbraio, 09:28
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Henri-Frédéric Amiel

Di: Mattia Mantovani 

La storia della letteratura è ricca di gioielli nascosti, opere incredibilmente sottostimate e autori altrettanto incredibilmente sottovalutati, al punto che si potrebbe compilare una specie di “controstoria”, opposta o almeno affiancata alla storia ufficiale. Una posizione di assoluto rilievo in questa eventuale “controstoria” spetterebbe senza alcun dubbio a Henri-Fréderic Amiel e alle diciassettemila pagine del suo Journal intime.

Nato a Ginevra il 27 settembre 1821 e morto l’11 maggio 1881, Amiel studiò filosofia a Berlino alla scuola fondata da Hegel e Schelling (ma il suo autore d’elezione fu Schopenhauer) e in seguito, tornato sulle rive del Lemano, insegnò Letteratura ed Estetica alla locale università. Dal 1854 al 1881, fu infine titolare della cattedra di Filosofia. Proveniva da una famiglia di stretta osservanza calvinista ed era rimasto orfano in giovanissima età: la madre, malata di tisi, era morta nel 1832; due anni dopo, il padre si era suicidato gettandosi nel Rodano. Terminati gli studi superiori, aveva viaggiato molto per l’Italia e la Francia, prima di stabilirsi a Berlino nel 1844 per frequentare l’università.

La sua carriera come docente universitario nella natia Ginevra si svolse in maniera piuttosto incolore, e lo stesso si può dire dei suoi sparuti tentativi con la letteratura d’invenzione, culminati in modeste raccolte poetiche, in soporose ballate storico-mitologiche (che sembrano anticipare quelle del futuro Premio Nobel Carl Spitteler) e soprattutto nell’inno patriottico Roulez tambours!, una sorta di Marsigliese svizzera composta nel gennaio 1857, quando il Cantone di Neuchâtel e la Prussia vennero ai ferri corti e le frontiere elvetiche furono concretamente minacciate. Il nome di Amiel – che fu anche traduttore di alcune liriche di Leopardi – sarebbe quindi caduto nell’oblio, o nella migliore delle ipotesi sarebbe stato ricordato esclusivamente per l’inno patriottico, il cui motivo e in particolare il secondo distico, intitolato En Route, sono ancora molto celebri: «Roulez, tambours! Pour couvrir la frontière, / Aux bords du Rhin, guidez-nous au combat! / Battez gaîment une marche guerrière, / Dans nos cantons, chaque enfant naît soldat! / C’est le grand cœur qui fait les braves, / La Suisse, même aux premiers jours, / Vit des héros, jamais d’esclaves... / Roulez, tambours!».

Ma il destino ha voluto diversamente, garantendogli una fama postuma che si fonda su ben altri motivi. Perché a partire dal 1847 e fino all’anno della morte Amiel ha scritto in segreto una delle opere più intriganti e affascinanti della storia della letteratura: il monumentale Journal intime, venuto alla luce solo dopo la sua morte, pubblicato inizialmente nel 1882 (una piccola scelta) e in seguito, in maniera più sistematica, nel 1927, anche se l’unica edizione integrale in dodici volumi è stata pubblicata negli anni Ottanta del secolo scorso dalle edizioni L’Age d’Homme di Ginevra, in occasione del centenario della morte.

È difficile trovare paragoni per un’opera enciclopedica – si vorrebbe quasi dire “oceanica” – come il Journal intime: viene da pensare, ovviamente, allo Zibaldone di Leopardi, al Diario di uno scrittore del coetaneo Dostoevskij, ai Libri Blu e al Diario occulto di Strindberg oppure al meraviglioso Journal litteraire di Paul Léautaud, forse il più vicino ad Amiel non solo per motivi linguistici e biografici (anche Léautaud, abbandonato dalla madre e trascurato dal padre, era cresciuto quasi da orfano), ma soprattutto per certe credenziali stilistiche, l’approccio scettico, dubitoso e disincantato alla realtà e il lunghissimo periodo di stesura: trentaquattro anni per Amiel, addirittura sessantatré per Léautaud, dal 1893 al 1956.

Riassumere o perfino circoscrivere il significato e il contenuto delle diciassettemila pagine del Journal intime è un’impresa a dir poco improba, che non si può intraprendere senza correre il rischio di banalizzare il labirintico universo umano e poetico di Amiel. Edmond Jaloux, che curò la pioneristica edizione del 1927, ha tuttavia indicato un percorso, parlando in questi termini di Amiel: «Il prodigioso esempio di un uomo che si è amputato della vita per consegnare a proprio ampio agio l’immagine di questa stessa vita». E’ una chiave di lettura molto originale e soprattutto illuminante, perché permette di individuare, all’interno del Journal intime, alcuni massi erratici – se così li si può definire – che tendono a cristallizzare e compongono infine un gruppo di nuclei tematici particolarmente rivelatori, in particolare quello costituito dal legame che unì Amiel alla giovane vedova ventiseienne Marie-Adrienne Favre, ribattezzata dallo stesso Amiel col nome di Philine (anche in questo caso, è lecito istituire un paragone col Journal litteraire di Léautaud e il morbinoso personaggio dell’amante – ma soprattutto odiamata – Madame Anne Cayssac, velenosamente ribattezzata “la pantera” e ancora più spesso le Fléau, “il Flagello”).

La verità di una vita amputata per trasformarsi in racconto, una continua riflessione sulla vita che impedisce di esistere, di confrontarsi con quella che Goethe aveva definito la “prosa del mondo”. Sembra un paradosso, ma sono proprio una simile dimensione e questa particolarissima percezione della realtà a profilarsi in tutto il Journal intime, con un’evidenza addirittura dirompente nelle molte pagine dedicate alla relazione con Philine, che forse nemmeno lo Stendhal del De l’Amour sarebbe riuscito a classificare, perché essenzialmente platonica, cerebrale, costantemente bloccata, sfociata una sola volta in un rapporto intimo, almeno stando alla testimonianza di Amiel. È insomma la verità di una vita che si analizza senza sosta («Passo tutta la vita a rivivermi», scriverà poi Léautaud), che disseziona se stessa come su un tavolo anatomico, si arresta di fronte all’azione, tentenna al cospetto della decisione e affoga infine nelle sabbie mobili del dubbio.

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Scrive ad esempio Amiel nella nota del 15 novembre 1869, che può essere considerata il cuore segreto di tutto il Journal intime: «Il mio torto essenziale, sempre lo stesso, è stato l’indifferenza per il mio avvenire e il rinvio di ogni grande sforzo. Mi ha sempre ripugnato pensare al mio interesse, alla mia carriera, alla mia reputazione. L’utile mi ha sempre suscitato un estremo disgusto, ed è così che ho raggiunto l’età di quarantotto anni senza essere maturato. A che fine si sono consumati i miei anni? A far piroette su me stesso come un derviscio, a fantasticare, a progettare senza scopo». L’autoanalisi è piuttosto impietosa, ai limiti del masochismo. Ma Amiel si è spinto anche oltre.

L’arte di tergiversare, il continuo arretrare di fronte all’azione e infine la pretta paura di vivere (o meglio: il non vivere per paura di vivere) sono il basso continuo del Journal intime, una specie di lunghissimo accordo in minore che ne costituisce il nucleo e si compone in una verità che a sua volta si scinde in numerose variazioni, in una sorta di perversa spirale senza inizio e senza fine, perché il punto d’arrivo è uguale al punto di partenza (ma qui siamo lontanissimi dalla divertente autoanalisi e dalla spassosa ironia del Voyage autour de ma chambre di Xavier de Maistre). C’è infatti in Amiel una specie di strano piacere consistente nel rimirarsi la piaga, nello specchiarsi nel nulla, nel dolore e nel disincanto.

Lo si avverte soprattutto nella nota redatta in occasione di uno snodo fondamentale, i cinquant’anni di età: «Mi abituerò a questa cifra, come a tanti altri mali irrimediabili. Uno perde i suoi anni come i suoi denti, i suoi capelli, le sue illusioni e le sue speranze. Solo che la cifra “50” ha qualcosa di particolarmente odioso. E’ un addio più solenne dei precedenti». Date simili premesse, non può ovviamente mancare un bilancio molto pessimistico: «Vivere significa fallire e adattarsi, perché in ogni azione c’è il germe dell’inutilità e del non senso, e poi perché non si crede più alla vita, non più che a un cattivo veicolo di vetturino; ma ci si adatta a proseguire fino alla fine del viaggio, e ci si esercita a portare pazienza». La pazienza e l’adattamento di Amiel, che amava paragonarsi a una libellula («C’est de l’air tissé, du vent vivant») durarono ancora un decennio: morì a 60 anni, all’improvviso, a causa di un’asfissia. Le sue spoglie sono conservate nel cimitero di Clarens.

Non bisogna tuttavia pensare all’egotista Amiel come a un autore esclusivamente ripiegato su se stesso, perché nel Journal intime ci sono anche svariate e puntualissime considerazioni di carattere storico, politico e sociologico. Lo si è un po’ sbrigativamente definito un conservatore, perfino un reazionario, un retrogrado, ma è sufficiente leggere con attenzione e senza pregiudizi ideologici le sue pagine dedicate ai grandi problemi e alle incongruenze sociali per capire che nelle sue considerazioni c’è molto realismo, e soprattutto ci sono un disincanto, un tono profetico e un lucido pessimismo che parlano molto da vicino a noi “venuti dopo”.

È un discorso che vale soprattutto per le tanto discusse considerazioni sul “trionfo dell’appiattimento”. Ci piaccia o meno, questo Amiel “impolitico” non è soltanto un egotista, ma piuttosto un contemporaneo del futuro, che in un periodo di “magnifiche sorti e progressive” era riuscito a intravedere la verità vera del positif du monde. Ed è una verità indigesta, amara come il fiele, paragonabile a quella contenuta ne La morte di Danton di Georg Büchner oppure in certi lucidissimi sproloqui dell’ultimo Céline: «Le masse saranno sempre al di sotto della media. La democrazia arriverà all’assurdo, rimettendo ai più incapaci la decisione intorno alle cose più grandi. Sarà la giusta punizione per il suo principio astratto dell’uguaglianza, che dispensa l’ignorante di istruirsi, l’imbecille di giudicarsi, il bambino di essere uomo e il delinquente di correggersi. Culminerà nel trionfo della feccia e dell’appiattimento».

Amiel ha vissuto non da ultimo un tipico destino elvetico, che lo accomuna a Gottfried Keller e soprattutto a Robert Walser. Lo scapolo zurighese Keller, che negli ambienti letterari della sua città era conosciuto come il “vecchio brontolone”, ha scritto indimenticabili storie d’amore ma ha vissuto molti anni sull’orlo della miseria, prima di affermarsi come narratore di rango europeo. Le oscure profezie sul futuro del liberalismo e della società democratica, contenute nel suo ultimo romanzo, Martin Salander, pubblicato nel 1886, non sono molto dissimili da quelle di Amiel.

Le analogie sono ancora più evidenti nel caso di Robert Walser. Entrambi, infatti, sono stati riscoperti e rivalutati soltanto dopo la morte, entrambi hanno lasciato un’opera letteraria che ha molte affinità sia nei presupposti che sul piano formale. Walser sosteneva giustamente di aver scritto nient’altro che un “libro dell’io”, e tutte le sue opere – con l’aggiunta dei leggendari “microgrammi” – vanno a comporre un Journal intime non meno monumentale di quello di Amiel. «Due differenti fratelli nello spirito»: così li ha definiti Robert Mächler, autore della prima e forse insuperata biografia di Walser.

La definizione è perfetta: fratelli nello spirito, ma anche differenti, perché la loro idea della vita parte dai medesimi presupposti ma giunge a conclusioni divergenti. Walser dice “sì” alla vita, con molti dubbi e riserve. Amiel dice “no” alla vita, ma proprio in virtù di questa negazione la percepisce con dolorosa intensità e nostalgia. Dal “sì” di Walser e dal “no” di Amiel proviene insomma la stessa eco, sempre più fascinosa, perturbante e familiare. Si potrebbe perfino immaginare un dialogo tra questi differenti fratelli nello spirito: alla nota del Journal intime di Amiel, datata 27 luglio 1854 («Temo tutti i miei istinti, e la mia vita è una costrizione, una reticenza perpetua. Cedo a un solo istinto, quello di trattare tutte le mie passioni col gelo e la paura; ho terrore del destino, e ogni coinvolgimento mi spaventa»), Walser potrebbe rispondere coi versi finali di una delle sue ultime poesie: «Non auguro a nessuno di essere come me, / di sapere tante cose, / di avere visto tante cose / e di non avere nulla, così nulla da dire».

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