Letteratura

La terribile banalità del tempo che passa

Da Washington Irving a Max Frisch: la leggenda di Rip van Winkle e la biografia come “gioco” e “recita”

  • 02.06.2024, 07:32
Il passare del tempo per contributo Rip van Winkle.jpg
Di: Mattia Mantovani 

Nel segmento conclusivo della Spedizione notturna di Xavier De Maistre, uscita nel 1825 come ideale prosecuzione del leggendario Viaggio intorno alla mia camera del 1795, c’è un bellissimo passo nel quale il giovane soldato savoiardo e “viaggiatore immobile” -segregato per punizione nella Cittadella di Torino- allo scoccare della mezzanotte riflette sul passato e sul futuro: «Sono due nulla, tra i quali mi trovo in equilibrio come sul filo di una lama. In verità, il tempo mi sembra qualcosa di talmente inconcepibile che sarei tentato di credere che non esista veramente, e che ciò che chiamiamo così non sia altro che un castigo del pensiero».

Le generazioni umane gli appaiono allora come immense onde che si infrangono, l’una dopo l’altra, «sulla riva dell’eternità». Perché il tempo, ha scritto Robert Walser più o meno un secolo dopo, in un racconto autobiografico intitolato Storia di Helbling, è davvero una cosa stranissima, sfuggente, incomprensibile come la vita della quale scandisce il divenire: «Passa in fretta, eppure in questo suo correre pare come improvvisamente incurvarsi, spezzarsi, e poi è come se non esistesse più».

Da queste poeticissime ed elegiache percezioni, che col passare degli anni e l’accumularsi delle esperienze si trasformano in un prosaico e perfino dozzinale dato di fatto, è possibile trarre conseguenze di varia natura. Lo sventurato Xavier, ad esempio, si era rivolto in questi termini ai cosiddetti potenti della Terra: «Come se la tempesta della vita non fosse abbastanza impetuosa, come se ci sospingesse troppo lentamente ai confini dell’esistenza, le nazioni in massa si sgozzano con slancio, anticipando il termine prefissato dalla natura; i conquistatori, trascinati a loro volta dal rapido vortice del tempo, si divertono a falcidiare migliaia di uomini. Ehi, signori miei, cosa avete in testa? Ci si potrà mai stupire abbastanza di una simile demenza?». Un vecchio saggio come Theodor Fontane, nel tardo capolavoro romanzesco Effi Briest, si era invece limitato a riassumere laconicamente l’intera questione nel seguente aneddoto: «Un uomo era stato chiamato mentre banchettava allegramente, e il giorno dopo aveva chiesto com’era proseguita la serata. E gli avevano risposto: “Ah, sono successe molte cose, ma in fondo non ti sei perso niente”».

Tutto vero, anzi verissimo. Ma sono possibili e pensabili anche altre reazioni: si può provare, infatti, il vago ma pungente sospetto di non essere mai vissuti (il tema è stato magnificamente sviluppato da due grandi scrittori svizzeri di lingua tedesca: il “vecchio brontolone” Gottfried Keller, a metà dell’Ottocento, nel ciclo di racconti La gente di Seldwyla, e Max Frisch in tempi più recenti). Oppure ci si può consolare -ma è una grama consolazione- con le parole dello scrittore austriaco Ernst Weiss, che in un racconto dal titolo L’aristocratico, del 1928, ha paragonato l’esistenza nel tempo a una caduta ininterrotta, aggiungendo però che c’è la possibilità di dare una forma (una “curvatura”) alla caduta stessa.

Gli esempi non sono pochissimi: viene da pensare anche a Contro-passato prossimo di Guido Morselli, oppure Le stelle fredde di Guido Piovene, La prova del fuoco del già ricordato Ernst Weiss e Il  Viaggio di G. Mastorna della coppia Federico Fellini-Dino Buzzati, senza dimenticare Passo d’addio di Giovanni Arpino. Ma lo scrittore del Novecento che si è maggiormente confrontato col banalissimo e abissale mistero del passare del tempo è stato forse Max Frisch, che ne ha fatto addirittura un principio poetico, declinato in chiave narrativa nei romanzi Stiller, Homo Faber e Il mio nome sia Gantenbein, oppure in senso drammaturgico nel Trittico e più ancora nel testo teatrale Biografia - Un gioco scenico, dei tardi anni Sessanta, che già nel titolo (tutto giocato sulla duplice connotazione semantica del sostantivo Spiel) lascia intuire il tentativo di considerare il tempo come qualcosa di reversibile e la vita come una specie di “gioco” o “recita” che si potrebbe riprendere da capo: magari con altri personaggi, correggendo le battute, lavorando sulle pause e i silenzi, ritoccando e rimodellando le didascalie e le indicazioni di regia, e soprattutto modificandone taluni esiti e conseguenze.

Lo stesso Frisch, proprio parlando di Biografia, aveva coniato per un simile “gioco scenico” la bella definizione “drammaturgia della casualità”, spiegandola in questo modo: «La sostanziale arbitrarietà di ogni storia è una questione alla quale personalmente non so fornire una risposta, però mi spinge alla rappresentazione, e rappresentare significa esplorare, fare tentativi. Inizialmente ho tentato di trattare il tema all’interno della forma del romanzo, ma il gioco con le varianti, così come viene sviluppato ne “Il mio nome sia Gantenbein”, è fondamentalmente anti-epico, e quindi è teatrale. Come possiamo stabilire le varianti in senso drammaturgico? Ogni sviluppo, che in virtù del suo stesso accadere esclude ogni altro possibile sviluppo, sfocia nella presunzione di un senso che non gli appartiene. Il mio tentativo continua a situarsi all’interno della cornice del teatro, però rinunciando alla drammaturgia tradizionale della combinazione dei fatti». Queste considerazioni, tra l’altro, spiegano una frase di Frisch sulla quale si è poco riflettuto e ragionato: «Ognuno, col passare degli anni, si crea e inventa una storia che scambia infine per la propria vita».

Kürmann, il protagonista del gioco scenico, ha la possibilità di rivivere la propria vita, ma in sostanza rifà le stesse cose (sposa la stessa donna, si iscrive allo stesso partito politico, insegue le stesse chimere, si infervora per gli stessi ideali) e commette esattamente gli stessi errori, a dimostrazione del fatto che la “libertà” è in ultima analisi una faccenda piuttosto complicata, facilmente definibile per sottrazione ma non per addizione, e che il confine tra la libertà stessa e un non meglio investigabile determinismo è molto più labile di quanto si potrebbe pensare. Rimane comunque la suggestione dello Spiel, che si traduce nell’idea delle “storie indossate come abiti”, come le aveva definite lo stesso Frisch in un celebre passo di Il mio nome sia Gantenbein, oppure nel leggere e interpretare la vita, nel suo farsi e divenire, come infinito gioco delle varianti e delle possibilità: Was wäre, wenn, «Cosa succederebbe, se…».

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Ma la questione è perfino più complicata e scivolosa. Perché il passare del tempo e il mero accumulo additivo degli anni e delle esperienze ci trasformano anche in revenant, spettri e fantasmi che provengono da altri momenti storici (Epochenverschlepper: “trascinatori di epoche”, secondo la penetrante definizione di Gregor von Rezzori, scettico e disincantato revenant della vecchia Europa) e si trovano a vivere in una nuova e straniante realtà. E’ questa la dimensione per così dire “originaria” della fuga del tempo, svolta narrativamente da Frisch nel grande romanzo Stiller, del 1954, che rimane uno dei testi fondamentali e imprescindibili del secondo Novecento.

Si sbagliava, insomma, un lettore di spicco come Ennio Flaiano, che lo aveva un po’ sprezzantemente definito «noiosetto e pirandelliano»: in primo luogo, perché Stiller non è affatto “noiosetto” (è costruito e orchestrato come un giallo, con uno svolgimento imprevedibile e il mistero che si svela -peraltro in piccola parte e lasciando aperte molte questioni- soltanto nelle pagine conclusive), e poi perché l’aggettivo “pirandelliano” -ben diverso dal “pirandellismo”, che non riguarda Luigi Pirandello ma piuttosto i suoi epigoni- contiene una definizione che è già un complimento.

Il romanzo, nello specifico, è una versione rovesciata del vecchio schema del romanzo di formazione: un uomo, lo scultore Anatol Ludwig Stiller, lascia la propria patria e la propria città d’origine (nel romanzo sono la Svizzera e Zurigo, ma la connotazione geografica è del tutto secondaria), cambia identità, vive alcuni anni all’estero come Mister White e alla fine, quando fa ritorno in patria, vorrebbe vivere con la nuova identità. Tutti, però, continuano a percepirlo nella sua vecchia identità, che per Stiller è un abito ormai dismesso. Come ha scritto William Faulkner in Requiem per una monaca: «Il passato non è mai morto, non è nemmeno passato».

La primissima idea del revenant risale tuttavia all’anno precedente la stesura di Stiller ed è contenuta in un radiodramma dal titolo Rip van Winkle, che svolge in chiave novecentesca, con l’aggiunta di una sfumatura esistenzialista ovviamente mancante nell’originale, una leggenda raccontata per la prima volta nel 1819 dal decano e capostipite degli scrittori statunitensi, Washington Irving.

Ambientato negli anni precedenti la rivoluzione americana, lo scritto di Irving, inserito nel più ampio ciclo narrativo di Sleepy Hollow, racconta la strana storia di Rip van Winkle, abitante di origini olandesi di un villaggio alle pendici dei monti Catskill. Apprezzato e benvoluto da tutto il villaggio per la sua affabilità e le maniere cordiali, Rip è tuttavia molto sventato, pigro e accidioso, e litiga costantemente con la moglie. Un giorno d’autunno, fuggendo dall’ennesima lite, si rifugia sui monti, dove incontra delle strane personcine, gli gnomi della montagna, con cui condivide un particolarissimo liquore. Si addormenta e dorme per vent’anni, durante i quali scoppia la rivoluzione e tutto cambia, al punto che al risveglio si trova a vivere in un mondo che gli è completamente estraneo: «Gli ci volle tempo per rientrare nel giro delle chiacchiere consuete, e per capire gli strani eventi che avevano avuto luogo durante il suo sonno. C’era stata una guerra rivoluzionaria, il paese si era scrollato di dosso il giogo della vecchia Inghilterra, e adesso, invece di essere un suddito di sua maestà Giorgio III, era un libero cittadino americano. Ma Rip non era un politico, e i mutamenti di stati e imperi non gli facevano una grande impressione».

Seguendo l’esempio di Irving e poi di Frisch («Cosa succederebbe, se…»), si potrebbe immaginare un gioco scenico con un novello Rip van Winkle, revenant dei nostri giorni, che si è addormentato vent’anni fa e si risveglia in un mondo che in due decenni ha subito profonde trasformazioni. Cosa direbbe e penserebbe l’attuale Rip van Winkle? Si adeguerebbe ai cambiamenti? Ma soprattutto, come si potrebbe rispondere, senza menzogne inganni e ipocrisie, alle sue inevitabili domande: «Cos’è successo nel frattempo? Cosa mi sono perso?». Forse l’unica risposta veramente sincera e plausibile è contenuta nell’aneddoto raccontato da Theodor Fontane: nel tempo che passa, trasforma e deforma c’è qualcosa di banalmente terribile. E di terribilmente banale.

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