Il suo coetaneo e fratello spirituale Baudelaire, in un celebre verso de I fiori del male, ha scritto che l’unico modo per «trovare il nuovo» consiste nello «scendere nell’abisso» e nel calarsi «al fondo dell’Ignoto». Perché solo nell’“Ignoto” e nel suo “fondo” – «Cielo e Inferno che sia!» – si può nutrire la speranza di giungere a una dimensione in grado di negare quella limitatezza di prospettive e orizzonti che da sempre è il brodo di coltura del nulla comune, del grado zero dell’umano e della bêtise, la stupidità universale.
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Non deve quindi stupire che il giovane e irrequieto Gustave Flaubert abbia inizialmente individuato una possibilità di fuga proprio nella ricerca dell’Ignoto e della lontananza. E che si sia svelato con estrema evidenza nei resoconti di viaggio («l’amara scienza», sempre secondo le parole di Baudelaire) tutti pubblicati postumi, dove si può trovare il suo “cuore” veramente “messo a nudo”. Se si esclude infatti un breve soggiorno nell’Africa del Nord nella primavera del 1858, a 37 anni, con lo scopo di studiare gli ambienti per la stesura di Salambò, il cosiddetto “romanzo cartaginese”, i viaggi di Flaubert (che poi condurrà sostanzialmente una vita da “orso”, tra la sua “tana” di Croisset e Parigi) si situano tutti nel periodo della giovinezza: un lungo itinerario nei Pirenei e in Corsica nel 1840; un giro turistico in Italia e in Svizzera nel 1845, al seguito della sorella Caroline in viaggio di nozze; l’escursione di tre mesi in Bretagna nel 1847, in compagnia dell’amico Maxime Du Camp, e infine il grande viaggio in Oriente, sempre in compagnia di Du Camp, dall’autunno 1849 alla tarda primavera 1851.
Il resoconto più celebre e giustamente celebrato, per l’innegabile fascino dell’ambientazione esotica e l’altissima qualità di scrittura, è quello del viaggio in Oriente, soprattutto nella parte dedicata all’Egitto. Il più importante è forse quello del viaggio in Bretagna “per campi e spiagge”, scritto a quattro mani insieme a Du Camp, perché è nelle sue pagine che affiora per la prima volta la grande utopia del “libro su niente” e della forma elevata a contenuto e veicolo espressivo. Ma il resoconto decisivo, perché maggiormente gravido di conseguenze in termini di idee e contenuti, è quello relativo al viaggio in Italia e Svizzera della primavera 1845. Si tratta di un resoconto poco significativo sul piano squisitamente letterario, anche perché è costituito da note piuttosto estemporanee, assimilabili a quelle prese una dozzina di anni dopo durante il viaggio nell’Africa del Nord. Ma anche in queste note si può intravedere con notevole chiarezza il futuro grande scrittore e alcuni dei suoi temi fondamentali. Un tema, in particolare, che poi diventerà il tema per eccellenza di Flaubert, quasi un’ossessione
A Genova, nelle sale di Palazzo Balbi, il giovane Gustave ammira infatti il dipinto Le tentazioni di sant’Antonio, tradizionalmente attribuito a Pieter Bruegel il Giovane (più recentemente a Jan Verbeeck, ma l’attribuzione rimane incerta), e concepisce la prima idea di quella che diventerà poi l’opera di tutta la sua vita: «Ho visto un dipinto di Bruegel che rappresenta Le tentazioni di sant’Antonio, e mi è venuta l’idea di arrangiare il tema in chiave teatrale», scriverà alcuni giorni dopo da Milano all’amico Alfred Le Poittevin.
La descrizione del dipinto, contenuta nelle note di viaggio, illustra perfettamente l’idea e per molti versi è già una visione del mondo e quindi un programma poetico: «Nel fondo, dai due lati, su entrambi i rilievi, due teste mostruose di diavoli, per metà esseri viventi, per metà montagna. In basso, a sinistra, Sant’Antonio in mezzo a tre donne, volta il capo dall’altra parte per evitare le loro carezze. Le donne sono nude, bianche, sorridono e stanno per avvolgerlo nelle loro braccia. Di fronte all’osservatore, nel punto più basso del dipinto, la Gola: è nuda fino alla cintola, magra, la testa ornata di orpelli rossi e verdi, viso triste, collo smisuratamente lungo e teso come quello di una gru, che forma una curva verso la nuca, clavicole sporgenti, gli offre un piatto colmo di vivande colorate».
I grandissimi scrittori nascono grandissimi, e Flaubert non sfugge alla regola. Nella descrizione del dipinto ci sono infatti una potenza pittorica e una maniacale attenzione per i dettagli – la ricerca del mot juste, la “parola esatta” – che torneranno nelle grandi opere narrative: «Un uomo a cavallo in una botte – teste che escono dal ventre degli animali - rane con braccia, che saltano sul terreno – un uomo col naso rosso su un cavallo deforme, circondato da diavoli – drago alato in volo: tutto sembra sul medesimo piano. – Insieme formicolante sogghignante e sghignazzante in modo grottesco e impetuoso, nella precisione di ogni dettaglio. Questo dipinto di primo acchito sembra confuso, poi diventa strano per quasi tutti, divertente per alcuni, con qualche significato per altri. Per quanto mi riguarda, ha cancellato tutta la galleria in cui si trova. Non mi ricordo già più del resto».
Qui siamo davvero molto vicini al gouffre, all’abisso evocato da Baudelaire («Morte, vecchio nostromo, è ora di salpare. / Questa terra ci annoia, leviamo gli ancoraggi!»). Nel momento stesso in cui mette per iscritto le proprie impressioni, Flaubert ha già la consapevolezza di trasfigurare la fuggevolezza e la transitorietà del presente nella fissità del ricordo, in qualcosa che prende forma (dovrebbe prendere forma) nella “parola esatta” ed esprime il tentativo di negare la morte o almeno di riscattarla nella Verità, nella Bellezza, nell’Assoluto dell’Arte e della Vita: «Dalla forma nasce l’idea», dirà poi a uno dei suoi più grandi amici e confidenti, Théophile Gautier. Sarà la sua grande ossessione come narratore, così restituita dai fratelli Goncourt in una nota del Diario del 1862, non priva peraltro di tratti profetici: «Ha un rimorso che gli avvelena la vita e lo porterà alla tomba: l’aver messo in Madame Bovary due genitivi, l’uno dopo l’altro, une couronne de fleurs d’oranger». Se ne dispera, ma ha un bell’arrabbiarsi; non si può fare diversamente».
Però il giovane viaggiatore e futuro narratore è divorato dal sospetto che il tentativo sia vano. La verità è lontana dai grovigli dell’interiorità e forse è soltanto nella pura esteriorità dei fenomeni, nella vita delle acque, delle pietre e del vento: eterna ed eternamente cangiante, e quindi sfuggente, come quella percepita sulle rive del Mediterraneo, nelle campagne della Normandia e lungo le coste bretoni, tra laghi e fiumi sullo sfondo delle Alpi svizzere, e infine nel jardin des rêves dell’Oriente. Ma nell’universale bêtise nemmeno la purezza di quella verità è attingibile (il «nascondersi in tutte le forme» di sant’Antonio, lo «scendere fino al fondo della materia ed essere la materia»), perché le parole la celano proprio evocandola nel ricordo e nella rimemorazione. Vent’anni dopo, ne L’educazione sentimentale, il sospetto del giovane Flaubert diventerà certezza per lo scrittore precocemente invecchiato, che aveva l’impressione di «essere sempre esistito», con ricordi che risalivano addirittura «al tempo dei Faraoni».
«Ciò che sarà alla ribalta, per forse due o tre secoli, è roba da far vomitare un uomo di gusto; è tempo di sparire», aveva scritto dalla Svizzera all’amico Turgenev nel 1874, esprimendo la definitiva consapevolezza che l’intera esistenza è un luogo comune, una frase fatta, e che non è più possibile distinguere la tragedia dalla farsa. E’ anche per questa ragione che durante il soggiorno sul Rigi, tre decenni dopo il viaggio del 1845, i paesaggi svizzeri che lo avevano impressionato in gioventù non gli dicono più nulla e gli appaiono come una quinta di cartapesta, un fondale maestoso che però nasconde il nulla. Nella prima lettera scritta a George Sand dopo il ritorno dalla Svizzera, il 26 settembre 1874, scrisse tra l’altro: «Sono certo che mi troverai insopportabile e mi risponderai: “Cosa vuoi che ci faccia!”. E invece tutto fa. E noi crepiamo di farsa, d’ignoranza, di tracotanza, del disprezzo, dell’amore della banalità, del cicaleccio imbecille».
L’idea di svolgere narrativamente il tema del dipinto ammirato a Genova e il programma poetico si realizzeranno concretamente in un lunghissimo lavoro di preparazione (migliaia di libri letti, studiati e meditati) e in tre differenti stesure, che lo terranno occupato a più riprese per un quarto di secolo. Le prime due stesure risalgono al 1849 e al 1856, mentre la stesura definitiva, terminata nel 1872, verrà pubblicata in volume nel 1874.
Nel 1849, terminata la prima stesura, Flaubert legge il testo agli amici Bouilhet e Du Camp, che esprimono un giudizio molto severo: «Buttalo nel fuoco e non parliamone più». Bouilhet, in particolare, gli suggerisce di reinventare letterariamente un fatto di cronaca, sul modello de Il Rosso e il Nero di Stendhal: è la prima idea di Madame Bovary, alla quale Flaubert lavora negli anni successivi. Ma il fuoco della tentazione di Sant’Antonio continua a covare sotto la cenere ed è presente non solo in Madame Bovary, ma anche in Salambò, ne L’educazione sentimentale e negli abbozzi della grande enciclopedia della stupidità universale – il Sottisier – che prenderà parziale forma in Bouvard e Pécuchet e nel Dizionario dei luoghi comuni.
Quanto alla trama, come sempre in Flaubert è semplicissima, ma di una semplicità abissale e vertiginosa: sant’Antonio vaga per trent’anni nel deserto, patendo la fame e la sete, assediato e tormentato da innumerevoli visioni che mettono a dura prova la sua fede e il suo ostinato ascetismo. Si ha davvero l’impressione che i costumi di provincia di Madame Bovary, il leggendario passato cartaginese di Salambò e le amarezze de L’educazione sentimentale abbiano paradossalmente contato per il sempre più disilluso Flaubert soltanto come semplici pause nella stesura di quei veri e propri tableaux vivants che non si sarebbero mai risolti a diventare una narrazione compiuta, almeno nel senso tradizionale del termine. Se è vero, insomma, riprendendo le celebri parole dello stesso Flaubert, che “Madame Bovary” c’est moi, è altrettanto vero (o perfino più vero) che anche “La tentation de saint Antoine” c’est moi.
Madame Bovary - Gustave Flaubert
Laser 21.08.2012, 02:00
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Il primo a capirlo, non a caso, è stato proprio Baudelaire, che ebbe modo di leggere alcune parti della seconda stesura, pubblicate sulla rivista L’Artiste nel 1856-57, e ne parlò come di un «pandemonico cafarnao della solitudine», sostenendo che l’opera permetteva l’accesso alla «stanza segreta del suo spirito». Il giudizio è perfetto. Si può solamente aggiungere che La tentazione di sant’Antonio non è forse l’opera maggiormente riuscita di Flaubert, sicuramente è la meno fruibile, anche perché estremamente complessa e oggettivamente ostica, ma rimane una coraggiosa e inarrivabile visione allegorica dell’oscuro e indecifrabile destino dell’essere umano: la sostanziale inconsistenza di tutte le finzioni in cui credere, la vanità di ogni proposito, promessa e speranza, lo smarrimento al cospetto dell’evanescenza della vita con le sue continue illusioni e disillusioni, la solitudine del singolo individuo nel nulla comune, nelle immensità della storia e nello sconfinato deserto dell’esistenza, in quella che Carlo Levi definirà poi la “contemporaneità di tutti i tempi”. Sono i grandi temi che si trovano ovunque in Flaubert, ma in quest’opera (che forse è davvero il tanto favoleggiato livre sur rien) sono condensati e restituiti con la massima intensità e con dirompente potenza evocativa.
Si tratta quindi di una cosiddetta “opera originaria”, per mutuare un’espressione dall’amatissimo Goethe, che spiega e contiene tutte le altre, come ha notato un altro lettore di spicco quale Michel Foucault, individuando il nucleo più autentico della particolarissima poetica di Flaubert: «Si direbbe che Flaubert abbia di volta in volta passato questo tesoro inesauribile nel filtro grigio delle fantasticherie provinciali in Madame Bovary, formato e scolpito per le scene di Salambò, ridotto al grottesco quotidiano con Bouvard e Pécuchet. Si ha l’impressione che La tentazione di sant’Antonio sia per Flaubert il sogno stesso della scrittura: ciò che egli avrebbe voluto che essa fosse – morbida, serica, spontanea, armoniosamente disciolta nell’ebbrezza delle frasi, in una parola: bella – ma anche ciò che avrebbe dovuto cessare di essere per diventare infine chiara come la luce del giorno». Non si esagera, insomma, dicendo che tutta l’opera di Flaubert è nata nelle sale di Palazzo Balbi, al cospetto del dipinto di Bruegel, nei primi giorni di maggio del 1845.
Come ogni “opera originaria” (lo stesso Flaubert, del resto, l’ha definita «l’opera di tutta la mia vita»), anche La tentazione di sant’Antonio contiene ovviamente molte “frasi originarie”. Le si può rinvenire un po’ ovunque nelle sue tesissime pagine: nel monologo della Regina di Saba, ad esempio (una suggestione che Flaubert riproporrà in Erodiade, l’ultimo dei Tre racconti), oppure nello straordinario e prodigioso capitolo sugli eresiarchi (in parte ripreso da Borges all’inizio de L’Aleph), magistralmente costruito su un crescendo musicale di affermazioni simili ma contrastanti, quasi una sarabanda, che si risolvono in un pazzesco cafarnao e ricordano molto da vicino la “Notte di Valpurga” del Faust di Goethe e alcune scene del Manfred di Byron, in particolare il dialogo tra il protagonista e il cacciatore di camosci, nel secondo atto, sullo sfondo dell’Oberland bernese.
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Un momento particolarmente rivelatore è inoltre costituito dal dialogo tra Antonio e il gimnosofista, che con ogni evidenza è lo snodo decisivo di tutta la narrazione, perché esprime fino al paradosso, e anche oltre, una visione della realtà molto simile a quella di Flaubert. Dice infatti il gimnosofista, prima di scegliere volontariamente l’annientamento quale massima manifestazione dell’Assoluto: «Mi disgusta la forma, mi disgusta la percezione, mi disgusta anche la conoscenza stessa, perché il pensiero non sopravvive al fatto accidentale che lo causa, e lo spirito è un’illusione come tutto il resto. Tutto ciò che è generato perirà, tutto ciò che è morto deve tornare a vivere; gli esseri attualmente scomparsi soggiorneranno nelle matrici ancora informi, e torneranno sulla terra per servire dolorosamente altre creature».
La tentazione di sant’Antonio esce nel 1874, lo stesso anno in cui Flaubert comincia a lavorare al romanzo Bouvard e Pécuchet. E’ lecito supporre che lo stesso Flaubert avesse ancora in mente le parole del gimnosofista quando ha scritto l’ottavo capitolo, a dimostrazione che La tentazione di sant’Antonio è presente dappertutto nella sua opera. E’ infatti nell’ottavo capitolo che i due protagonisti, durante una passeggiata in campagna, alla vista della carogna di un cane, cominciano a riflettere sulla morte: «Le quattro zampe erano disseccate. Il rictus delle fauci scopriva sotto le labbra bluastre zanne d’avorio; invece del ventre c’era un ammasso di colore terroso, che sembrava palpitare tanto vi brulicavano i vermi: si agitavano colpiti dal sole, sotto il ronzio delle mosche, in quell’odore intollerabile, un sentore feroce e come divorante. Bouvard corrugò la fronte, i suoi occhi si inumidirono di lacrime. Pécuchet disse stoicamente: “Un giorno saremo così!”. L’idea della morte li aveva presi. Ne parlarono tornando indietro. Dopotutto, essa non esiste. Uno se ne va nella rugiada, nella brezza, nelle stelle. Si diventa parte della linfa degli alberi, dello splendore delle pietre preziose, del piumaggio degli uccelli. Si restituisce alla natura quello che essa ci ha prestato, e il nulla che ci aspetta non è più terribile del nulla che abbiamo alle spalle».
Ma la frase veramente “originaria” è contenuta in un fulmineo scambio di battute, quando Antonio percorre gli spazi infiniti dell’universo in groppa al Diavolo, quasi “al fondo dell’Ignoto”. Dice il Diavolo: «Come il firmamento si alza quanto più sali, così diventerà più grande all’ascesa del tuo pensiero; e dopo aver scoperto il mondo, sentirai aumentare la gioia, nel dilatarsi dell’infinito». «Ah, più in alto, sempre più in alto!», chiede Antonio, che «coglie con un solo sguardo la Croce del sud e l’Orsa Maggiore, la Lince e il Centauro, le nebulose del Dorado, i sei soli della costellazione di Orione, Giove e i suoi quattro satelliti, il triplice anello del mostruoso saturno».
Il santo vede «tutti i pianeti, tutti gli astri che verranno scoperti in seguito dagli uomini, i suoi occhi si riempiono di luci, il pensiero si perde nel calcolo delle loro distanze». Ma all’improvviso «la sua testa ricade» e dalla sua bocca esce flebilissima una domanda, che sembra quasi un gemito: «Qual è lo scopo di tutto ciò?». La perentoria risposta del Diavolo – che in definitiva è la risposta “originaria” alla domanda “originaria”– riassume tutta l’opera di Flaubert e il suo messaggio, arrivato intatto fino a noi: «Uno scopo? Non c’è nessuno scopo!».