Letteratura

L'amore come attesa dell'amore

Yasunari Kawabata e il paese delle nevi

  • 28.07.2023, 00:00
  • 14.09.2023, 09:03
kawabata
Di: Marco Alloni 

Ho sempre amato i libri che dicono e non dicono, regalandoci conoscenza e sconcerto in pari tempo. Uno di questi è Il paese delle nevi di Yasunari Kawabata, Premio Nobel per la Letteratura nel 1968 e morto suicida nel 1972.

Un romanzo d’amore tra l’esperto di danza Shimamura e la geisha Komako? Potrebbe essere definito così: un romanzo d’amore tra un borghese di Tokyo e una geisha delle montagne. Ma in verità sulla parola amore Kawabata compie il suo scandaglio sparigliando da cima a fondo le nostre aspettative. E quasi si vorrebbe, leggendolo, coniare una kunderiana forma di neologismo: chiamare tale inarrivabilità corteggiamento dell’amore.

Perché è vero che l’amore si persegue come compimento, ma è anche vero che la sua grana più inappagabile, il suo appetito più recondito, è probabilmente in ciò che non lo completa e non lo risolve. E in questo il romanzo di Kawabata è esemplare: ci insegna che tutto ciò che nell’amore e nel desiderio è prossimo al compimento – come in definitiva tutto ciò che nella vita è prossimo al compimento – assomiglia sinistramente alla morte, a una terrifica presa d’atto dell’assurdità di ogni cosa.

Shimamura è un detrattore del tempo sprecato, ma ne è in pari tempo un cultore. Sa che una delle più intime sostanze del vivere, nel paradosso di presentarsi come inafferrabili, è nella capacità dell’amore di offrirsi con tanto maggior vigore quanto meno è concreto e concluso il suo percorso verso l’appagamento. Con la complice sofferenza della geisha Komako, tutto desidera pertanto tranne di pregiudicare le infinite forme irrisolte, possibili ed eternamente procrastinate del desiderio.

Aveva una sensazione di vuoto per cui la vita di Komako gli appariva bella ma sciupata, anche se lui era l’oggetto del suo amore.

In questo senso Il paese delle nevi è l’apoteosi, il protrarsi estenuante ed estenuato di ciò che in ambito erotico-sentimentale potremmo chiamare Attesa. Komako si offre ma fugge, si manifesta ma si cela, e durante quasi ogni suo incontro con Shimamura ripete con esausta ostinazione: “Vado a casa”. Shimamura partecipa di questo corteggiamento dell’amore come un domatore percepisce che l’affondo nella sensazione dell’assoluto appartiene al farsi dell’addomesticamento e non ha nulla da spartire con la pigra euforia di aver reso un animale domo.

Komako lo desidera, Komako vorrebbe, al di là di ogni convenzione di ruolo, pretendersi sua? Komako lo cerca e lo rifugge, oscilla tra lui e le feste organizzate in onore dei propri clienti? E nondimeno Shimamura, ineffabilmente e quasi olimpicamente, attende. L’ha in pugno, si sa eletto a una propria unicità, la accoglie e la ignora, la chiama a sé e la respinge con la stessa naturale freddezza di chi non si aspetta altro che una perpetua dilazione di quel che non dovrebbe mai avvenire. Ma nel deliberato gioco degli equivoci non aspetta e non persegue appunto altro se non l’infinito protrarsi dell’Attesa, dell’indefettibile pregio dell’Attesa di non risolversi in approdo. In un certo senso, è un prestidigitatore della sospensione e dell’irresolutezza.

Per cui il lettore – che è a un tempo spregiudicato moralista di questo gioco senza soluzione e voyeur dell’indecisione – comincia pagina dopo pagina a rassegnarsi all’idea che il portato ultimo del racconto, la relazione tra Shimamura e Komako, non è in quanto potrebbe o non potrebbe accadere ma in effetti nell’inafferabilità assoluta del presente, nella sua ostinata irriducibilità ai suoi approdi.

“Vado a casa. Ho molto da fare. Non potevo dormire, e ho pensato di lavarmi i capelli (...) Ho preso altri impegni. E non potrò vedervi stanotte, è sabato e avrò molto da fare”. E tuttavia non accennò ad andarsene.

Nel libro, a rigore, non succede dunque nulla. L’uomo raggiunge da Tokyo la donna alle falde delle montagne innevate di una lontana provincia giapponese, la donna si intrattiene con lui per ore, giorni e minuti che scandiscono un tempo quasi immobile. I due si parlano, intrecciano considerazioni tra le più disparate, si cercano e respingono. Ma tutto avviene nel quadro di una inerzia, persino di una inazione, dove forse l’unica entità ad accadere è la neve che avvolge le giogaie.

In questo scenario l’aspettativa è massima ma l’appagamento ridotto al minimo, quasi all’inesistenza. Si legge, a partire da metà del romanzo in poi, quasi con una spasmodica fretta di capire o incontrare l’evento risolutivo. Si cerca, con pigra abitudine al colpo di scena, di indovinare i segementi o gli indizi che potrebbero portare a un’agnizione, qualunque essa sia. Si aspetta, si spasima, si aspetta, si scalpita, si aspetta. E visto che per lunghe pagine non accade niente che non sia nell’ordine della sospensione e della routine, con giochi di rimandi che sembrano portare da qualche parte ma non portano a nulla, un senso di smacco e delusione comincia a farsi vivo.

Ma è appunto l’errore “occidentale” di voler riconoscere nel romanzo un percorso risolutivo ed esplicito verso un approdo che invece non sopraggiunge, pur sopraggiungendo – ed è questo uno dei massimi pregi del libro – una sorta di consapevolezza ultima: che gran parte della vita è questo accadimento che non si manifesta, questa attesa che non si risolve, questo amore che non raggiunge se non il proprio desiderio di essere. E che corteggia se stesso sapendo che forse la sua essenza più intima è solo nel corteggiamento.

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