Letteratura

L'angoscia dell'influenza secondo Harold Bloom

Il giovane autore in sfida con i grandi nomi

  • 11 luglio 2023, 00:00
  • 31 agosto 2023, 11:25
Virgilio e Dante, Purgatorio (ill. Doré)

Virgilio e Dante, Purgatorio (ill. Doré)

Di: Valerio Abate

Qui non si tratta di influencer, ma di Influenze. Nel latino di Tommaso d’Aquino la parola «influenza» significa «il potere esercitato su di un altro», ma per secoli fu destinata a conservare il suo significato etimologico di «influsso», inizialmente legato alle forze eteree che gli astri esercitano sugli uomini, condizionandone caratteri e destini.

Se parliamo di influenza, allora trattiamo astri di massa superiore, come il sole e le stelle, intorno alle quali ruotano pianeti, lune e piccoli asteroidi. E questo ci porta a chiederci se esista ancora la volontà di confrontarsi e sfidare con lo sguardo le grandi stelle il cui influsso si protrae sino a noi, o se esista qualcuno che sente l’esigenza di affrontare i grandi artefici dell’arte e del pensiero che si sono travasati l’uno nell’altro attraverso la storia della cultura occidentale. Noi tutti conosciamo quei nomi che a un solo accenno percepiamo in una forte risonanza. Basterebbe immergersi con tutta l’anima in uno dei mondi di immagini, parole e suoni che si celano dietro quei nomi per sconvolgere la propria esistenza: uscire dalla loro casa e scoprire che il mondo è cambiato, rimanendo pur sempre quello di prima.

Quale sentimento hanno i giovani letterati, i giovani artisti, musicisti e filosofi nei confronti dei loro precursori: sentono il peso dell’eredità e dell’influsso dei grandi nomi o non se ne curano? Ammirano i maestri del passato o la demitizzazione e la secolarizzazione, oltre al ragionevole crepuscolo degli idoli, li hanno resi insensibili o incapaci di vedere lo spessore, l’altezza, la profondità umana che quegli individui sono stati in grado di manifestare?

L’aspirazione alla grandezza poietica è forse caduta col tramonto degli dèi: non si cerca di emulare qualcosa di estinto. Abbiamo scoperto che i grandi nomi appartenevano solo a degli uomini, e con questa scoperta si è spenta ogni parvenza di superiorità. Ma ciononostante studiamo e nominiamo ancora quelle figure maggiori, poiché destano tuttora interesse, poiché «hanno avuto la tenacia di lottare, anche fino alla morte, coi propri precursori forti. I talenti deboli tendono a idealizzare; le figure di vasta immaginazione invece si appropriano dell’esistente. Ma niente si ottiene per niente, e l’autoappropriazione comporta dunque enormi angosce di indebitamento» (Harold Bloom in L’angoscia dell’influenza, Abscondita 2014).

L’influenza implica perdite e guadagni. Chi evita di leggere i maggiori esponenti per non esserne influenzato sfugge al senso di indebitamento, tuttavia cade in un tranello, poiché tutto ciò che legge, ascolta e vede viene da coloro che egli evita. Dal passato non si sfugge; può darsi di volta in volta solo uno scarto dal precursore, ma non senza un confronto diretto, e neppure senza un fecondo fraintendimento che porta ad arrogarsi il diritto di correggere, completare o continuare l’opera del precursore. E se questo avviene in un’ostinata ricerca di originalità e identità, ecco che l’angoscia si insinua in ogni scelta. «Ma l’influenza poetica non rende i poeti necessariamente meno originali; spesso li rende anzi più originali, il che non significa per forza migliori».

Tuttavia questa angoscia dell’influenza, che si diffonde nell’era moderna dopo i grandi giganti del passato, non da tutti gli autori forti viene percepita: «Goethe, al pari di Milton, assorbiva i precursori con un piacere che evidentemente precludeva ogni angoscia». E Nietzsche, dal canto suo, doveva molto proprio a Goethe, ma per Nietzsche influenza significava rinvigorimento. Questo nonostante il fatto che dall’Illuminismo a oggi l’influenza poetica è stata «più una maledizione che un bene»: la forza del genio «stanca non lui, ma coloro che vengono nella sua scia». Esempio emblematico di questa forza che riverbera nel tempo ci è dato da Thomas Bernard quando, nel racconto Goethe muore, afferma che l’autore del Faust ha paralizzato la letteratura tedesca per due secoli.

Gli autori forti, almeno quelli che sono perdurati sino a noi e che non sono andati persi nelle pieghe della storia, diventano tanto più luminosi quanto più tempo si frappone tra loro e coloro che li fruiscono. Ma non solo, a rilanciare questo fulgido potere sono altri autori forti, i quali battono contro la montagna che li ha preceduti nell’ostinato tentativo di scalarla, alleandovisi o contrapponendovisi. Se non emergessero più figure forti, il riverbero potrebbe sfumare e quel che rimarrebbe di questi astri sarebbe una catalogazione, fotografie di stelle ormai spente.

Spesso sono i figli poetici a svelare i grandi padri poetici. Sono i casi in cui i precursori sono indebitati con l’efèbo forte, giacché vivono del suo colore e della sua voce. Quindi il giovane autore non solo toglie qualcosa al precursore, come nella formula di Oscar Wilde in cui «ogni discepolo porta via qualcosa al suo maestro», ma dona indietro qualcosa, si sdebita; ma questo solo se ne raggiunge il rango. E grandezza non significa assenza di influenza e totale indipendenza, come se l’autore giovane dovesse evitare ogni legame col passato. Goethe stesso si chiese se i risultati raggiunti dai precursori e dai contemporanei di un poeta gli appartengano di diritto, affinché possa costruire la propria cultura: «perché dovrebbe impedirsi di cogliere dei fiori se se li trova a portata di mano? È solo facendo nostre le ricchezze degli altri che possiamo dare vita a qualcosa di grande».

Ma cos’è questa grandezza? Questa è una domanda che solo lo sprofondarsi in un autore grande può risolvere. Ma qui possiamo accennare al fatto che tanto dipende dall’origine della grandezza poietica: non è chiaro oggi se sia individuale o se venga da qualcosa che sta di là dall’individuo, qualcosa a cui ogni epoca dà accesso, un fiume carsico che attraversa il tempo e che chiunque, intuendo dove scavare e scavando in profondità, può accedervi. Tuttavia sappiamo che coloro che reputiamo i forti non concepivano una singolarità individuale della poiesi, bensì erano attraversati e animati da Forze e Muse, dal Destino e da Dio, dalla Natura.

L’originalità e l’imitazione sono un’eco, un’attitudine alla ripetizione di un gesto; la ripetizione mantiene vivi, come il rito rianima di volta in volta l’atto originario. Nel confronto diretto coi morti ci si fa mediatori di un sentire più vasto e antico di noi, per questo l’opera può superare la durata della nostra esistenza, alimentando il lungo dialogo con i morti e tra i morti.

L’angoscia e l’indebolimento che Bloom individua nell’età moderna coincide col diffondersi lirico della soggettività e del solipsismo. Eppure tutti coloro che frequentano la poiesi dall’interno o dall’esterno sanno che nelle arti c’è sempre quel momento in cui l’artefice deve praticare una violenza contro il proprio io. A meno che si abbia quella forza possente che riconosciamo in Milton e in Goethe, che fra tutti erano i meno debitori dei grandi nomi. Essi non rifiutavano le immagini e il pensiero dei precursori, nemmeno però li andavano a cercare. Semplicemente se ne appropriavano.

Eppure Bloom (11 luglio 1930 - 14 ottobre 2019) arriva a dire che i poeti postilluministi più forti – Milton, Goethe, Hugo – vittoriosi nella lotta contro i morti, sembrano deboli se accostati a Omero, Isaia, Lucrezio, Virgilio, Dante, Shakespeare. E se pensiamo alla potenza di Fidia, di Giotto, Michelangelo, Rembrandt, David Friedrich... e l’accostiamo alle immagini più recenti ci accorgiamo dell’enorme divario; e nella musica da Vivaldi a Mozart, da Beethoven a Bach e a Chopin, per non parlare del pensiero: da Parmenide a Platone e Aristotele, a Seneca, a Plotino, Agostino, Bruno e Descartes, fino a Kant, Hegel e Nietzsche... ci sentiamo piccoli, come piccoli si sentirono – il più delle volte – i forti moderni accostati ai classici. Ciononostante tutti verranno ricordati, questo perché ognuno di loro si è posto ai piedi del monte del Purgatorio per scalarlo, e come dice Kierkegaard nel Panegirico di Abramo: «ognuno diventò grande in proporzione alla grandezza dell’obiettivo che si era posto».

Può anche essere, tutto sommato, che l’altezza culturale non sia un’esigenza del nostro tempo, e che i pochi che lottano in questa direzione siano le ultime scintille di una fiamma eroica che sta estinguendosi, per lasciare spazio a uno spirito orizzontale. Tuttavia non avere la facoltà di esperire e godere di queste vette dell’arte umana impoverisce la nostra vita che, nella piattezza, non può colmarsi di senso. Questo non significa però che bisogna tornare ad anelare alla grandezza – almeno non più come veniva intesa dallo spirito eroico – ma cercare di cogliere e creare qualcosa che possa meravigliare ancora e ancora per la sua elevata facoltà poietica; anche nella piccolezza, come un fiore azzurro nei pressi di una chiara sorgente.

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